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GIOVANI. RIUNIONE PRE-SINODALE (Roma, 19-24 marzo 2018) – 28 Maggio 2018

Queste sono le riflessioni di giovani del 21° secolo provenienti da diverse religioni e contesti culturali. Questo documento è volto a fornire ai vescovi una bussola che miri ad una maggiore comprensione dei giovani:

“I giovani cercano il senso di se stessi in comunità che siano di sostegno, edificanti, autentiche e accessibili, cioè comunità in grado di valorizzarli. Riconosciamo luoghi che possono aiutare lo sviluppo della propria personalità, tra i quali la famiglia occupa una posizione privilegiata.

Alle volte le parrocchie non sono più dei luoghi di incontro. Abbiamo bisogno di trovare modelli attraenti, coerenti e autentici. Inoltre, le nostre esperienze ecclesiali possono sia formare che influenzare la formazione della nostra identità e personalità. I giovani sono profondamente coinvolti e interessati in argomenti come la sessualità, le dipendenze, in matrimoni falliti, le famiglie disgregate, così come i grandi problemi sociali, la criminalità organizzata e la tratta di esseri umani, la violenza, la corruzione, lo sfruttamento, il femminicidio, ogni forma di persecuzione e il degrado del nostro ambiente naturale. Questi sono elementi di profonda preoccupazione nelle comunità vulnerabili in tutto il mondo. Abbiamo paura perchè nei nostri Paesi troviamo instabilità sociale, politica ed economica.

Alle prese con queste sfide, abbiamo bisogno di inclusione, accoglienza, misericordia e tenerezza da parte della Chiesa, sia come istituzione che come comunità di fede”.

DIO ALLA RICERCA DELL’UOMO – 27 Maggio 2018

La vita spirituale vuole essere una esperienza di Dio che incontrato, conosciuto e amato diventa quel Dio che plasma tutta la vita del cristiano e le dà senso. Ma essendo Dio colui che non si può  vedere senza morire,  così recita l’adagio biblico, essendo il nostro Dio colui che nessuno ha mai visto, come si può fare esperienza di Dio? Ebbene il credente conosce una esperienza che trascende la sua stessa intelligenza e riguarda il suo cuore, il suo volere operare. È una esperienza che egli traduce con parole umane, “io sento”, “io credo” che Dio è presente, aderisco al Dio Vivente.

Queste parole, a volte in certe ore, sono talmente aderenti ai sentimenti di chi crede da sembrare racconti di ciò che uno ha visto, racconti pieni di autorevolezza, racconti affidabili. Altre volte pronunciati in ore di aridità, di oscurità, sono così deboli da lasciar spazio al dubbio. E tuttavia chi passa attraverso queste terre, a volte deserte, a volte feconde, continua a credere, ad aderire, a sentire un legame con il Dio Vivente. Si sente testimone della presenza o dell’assenza di Dio, ascoltatore della sua voce o del suo silenzio.

L’uomo è sempre un cercatore e in questa sua disposizione è sempre capace di cercare Dio, non fosse altro perchè l’alterità radicale, significata dalla morte, sta sovrana nella ricerca di senso dell’uomo.

È la morte che crea in noi la ricerca del senso. E tuttavia nel cristianesimo va detto, e oggi siamo in grado di comprenderlo meglio di ieri, che è Dio che viene alla ricerca dell’uomo. È Dio  che sempre previene l’uomo, è Dio  che gli propone l’avventura dell’Alleanza, l’esperienza spirituale, in cui è lui, attraverso lo Spirito a farsi sentire vicino e vivente.

Enzo Bianchi

UNA VITA AMATA – 26 Maggio 2018

“E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi Abbà! Padre!” (Gal 4,6). Avere una vita spirituale significa lasciare spazio allo Spirito che ci fa sentire amati e figli. Da questa esperienza l’uomo l’uomo ne esce radicalmente cambiato perché avverte un senso alla propria vita che non è più consegnato a ciò che gli accade. L’uomo avverte di avere un senso non perché la vita va per il verso giusto, ma perché si sente di Qualcuno, si sente amato. In questo senso nel contesto contemporaneo abbiamo bisogno di vita spirituale, cioè abbiamo bisogno di una radicale esperienza di appartenenza e di amore. L’eclissi dei padri, così come alcuni hanno definito questo momento, è esattamente l’eclissi dell’appartenenza. Si comprende quindi perché il cristianesimo non promette una vita più fortunata, ma una vita amata. È nell’esperienza dell’amore il nocciolo vero di ogni vita spirituale.

LA VITA SPIRITUALE – 25 Maggio 2018

La vita spirituale non è una tecnica. Non è un insieme di preghiere. Non è una capacità nostra (come il silenzio,  il gusto, la riflessione). Essa è l’azione dello Spirito Santo dentro ciascuno di noi. Questa azione la potremmo definire come un’esperienza profonda e decisiva di Amore. Un’esperienza di relazione che ci dà un senso di appartenenza che cambia tutta la nostra esistenza.

RALLENTARE – 24 Maggio 2018

La parola rallentare non è semplicemente intesa come una velocità ridotta delle cose, ma come impegno a gustare ciò che si vive. Gustare significa sentire il sapore, e noi molto spesso nonriusciamo mai a gustare ciò che c’è nella nostra vita. Ma dietro questa capacità non si nasconde solo il sapore dolce dell’esistenza, delle volte anche il sapore amaro. Educarsi a sentire il sapore non significa scegliersi una parte di ciò che c’è, ma sentire il sapore di tutto ciò che c’è. In questo tipo di esperienza l’uomo si accorge che una parte del significato della vita si nasconde anche nella contraddizione, nel fallimento, nell’ombra. La nostra vita non è solo la somma di ciò che è andato bene, ma anche la somma di ciò che è andato male. Se rinunciamo ad accogliere in noi ciò che di storto ci accade, perdiamo pezzi fondamentali di significato che ci aiutano a comprendere e accogliere l’intera nostra vita.

IL SILENZIO – 23 Maggio 2018

Fare silenzio non è semplicemente smettere di parlare o abbassare il volume delle cose. Il silenzio è la capacità di accorgersi delle cose. Nel silenzio si risveglia in noi il potenziale dell’attenzione. Ogni giorno dovremmo allenarci al silenzio, cioè dovremmo, per un piccolo spazio di tempo, smettere di parlare, ragionare, ubriacarci di immagini e cose, è semplicemente accorgerci della vita, a partire proprio dalle piccole cose. La natura, il creato, o anche solo il volto delle persone che ci stanno accanto, se non addirittura il nostro volto, sono un’occasione per “accorgerci” della vita. Nel silenzio si sperimenta come la realtà si rivela. Il silenzio ci fa mettere in ascolto di una narrazione delle cose che è diversa dai nostri ragionamenti. È la stessa differenza che c’è tra l’immaginare il suono di una sinfonia leggendone lo spartito, e invece ascoltare direttamente il suono dell’esecuzione. Il silenzio ci libera dall’isolamento dei ragionamenti e da una vita intesa solo come consumo, e ci riconsegna a un realismo più profondo.

IL DONO DELLO SPIRITO – 22 Maggio 2018

         Si può vivere escludendo il cuore? Si può vivere escludendo l’interiorità? I dati statistici dell’aumento di patologie depressive ci dicono esattamente di no. L’uomo quando esclude il cuore si ammala.

         L’educazione del cuore, l’educazione all’interiorità non presuppone però già la fede, ma semplicemente la presa in considerazione della propria umanità. La vita di fede è incomprensibile per chi non ha già uno spazio di vita interiore. E questo perché la vita di fede è il dono dello Spirito che comincia ad abitare nel cuore dell’uomo. È assolutamente allora improbabile potersi dedicare alla vita spirituale se innanzitutto non ci si educa alla vita interiore.

Luigi Maria Epicoco

VITA INTERIORE – 21 Maggio 2018

Nel mondo di oggi siamo abituati a vedere una crescita esponenziale delle capacità tecniche dell’uomo. Sembra quasi che siamo arrivati a un livello tale di competenza sulle cose che la naturale conseguenza nel pensiero è quella di credere di poter tenere sotto controllo ogni cosa.

Ma è proprio davanti a questo delirio che una parte nell’uomo si ribella. È il cuore la parte in ribellione. Infatti, se da una parte le nostre capacità tecniche crescono, sperimentiamo anche una immensa crescita di tutte le patologie depressive, espressione di un disagio interiore che si vuole ignorare e non ascoltare. L’uomo è tale proprio per la sua interiorità, per la sua capacità di sapersi rivolgere al “mondo dentro” più che al “mondo fuori”. L’essere umano esprime la sua umanità non nel riuscire a trasformare ciò che lo circonda, ma nel percepire una significatività della vita che nessun altro essere può percepire. Lo spazio di questa percezione potremmo definirlo interiorità. La vita interiore non è ancora vita spirituale. Quando parliamo di vita interiore ci stiamo riferendo alla capacità che l’uomo ha di portare dentro di sè ciò che vive, ciò di cui fa esperienza, e rileggerlo attraverso una categoria che è diversa dal semplice utile. Ad esempio, un uomo non mangia solo per nutrirsi (l’utile), ma nel cibo riassume cose anche più profonde come la condivisione, l’amicizia, la gioia, la festa, o persino il lutto, il dolore, la mancanza. È troppo riduttivo per l’uomo mangiare solo per un bisogno biologico. Questo è il motivo per cui in ogni gesto, in ogni esperienza egli deve essere capace di interiorità, capace cioè di “sentire” la vita in una maniera più profonda. Ma non educare più all’interiorità significa lasciare l’uomo solo in balia dei suoi bisogni. Nasce così il disagio: siamo nati con una terza dimensione interiore, e invece ci costringiamo a vivere solo in due dimensioni esteriori (lo spazio e il tempo).

Luigi Maria Epicoco

TESTIMONE DELL’AMORE – P. A. Louf – 20 Maggio 2018

Pietro aveva appena rinnegato il suo Maestro per la terza volta, che “il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito, pianse amaramente” (Lc 22, 61-62). Che cosa ha significato quello sguardo per Pietro, possiamo solo immaginarcelo. Non fu certo una condanna: “Non sono venuto per condannare” dice Gesù stesso (Gv 12,47). E questo proprio nel momento in cui Pietro è venuto meno nei confronti di Gesù e si scopre in flagrante delitto di tradimento. In quella precisa situazione lo sguardo d’amore di Gesù lo tocca e lo ferisce e, nello stesso istante, gli offre il suo perdono d’amore.Gesù infatti, con quello sguardo d’amore, non ha abbandonato Pietro alla sua sofferenza e alla sua disperazione, ma gli ha fatto dono, di persona e all’istante, di in nuovo segno del suo amore. Chi ha potuto sperimentare un simile sgorgare di amore e di misericordia sarà anche il primo e il migliore testimone dell’amore. ” E tu, una volta avveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32). 

DIMORARE NELLA NOSTRA DEBOLEZZA – P. A. Louf – 19 Maggio 2018

Sfuggire alla nostra debolezza significherebbe sfuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa. Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e nello stesso tempo abbandonati alla misericordia di Dio. Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio e alla sua potenza. Dimorare nella tentazione e nella debolezza: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio.

RICONCILIARSI CON LA PROPRIA DEBOLEZZA – P. A. Louf – 18 Maggio 2018

Nell’esperienza quotidiana della vita spirituale, la maggior parte di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando ci appare, in modo più o meno brutale, la nostra debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna aver già una certa esperienza dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e riconciliarsi con il proprio peccato. Alcuni non riusciranno mai a riconoscere la minima traccia di debolezza in se stessi, il che è molto grave. La vita di costoro può sembrare molto generosa, perché fanno degli autentici sforzi, ma nel contempo sarà sempre un pò rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, prossime all’accecamento spirituale.

Grazie a Dio, molto più spesso non è così: è più frequente che noi conosciamo bene la nostra debolezza ma senza sapere come gestirla. Essa ferisce inconsciamente l’immagine ideale di noi stessi che portiamo sempre con noi. Spontaneamente pensiamo che la santità va ricercata nella direzione opposta al peccato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debolezza e dal male  e ci permetta così di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce in noi: la santità non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della tentazione, non ci aspetta al di là della nostra debolezza ma al suo interno.

QUANDO SONO DEBOLE, E’ ALLORA CHE SONO FORTE – P. A. Louf – 17 Maggio 2018

Gesù non viene per i giusti ma solo per i peccatori (cfr. Mt 9,13). È  qui in gioco un dato essenziale di ogni esperienza cristiana, che è indubbiamente l’unica condizione per essere toccati dalla grazia e per potervi acconsentire. Paolo esprime questo dato più o meno negli stessi termini: costretto dagli avversari a elencare tutti i suoi meriti,  nella speranza di far accettare la sua testimonianza,  comincia con il vantarsi di tutto quello che ha ricevuto e che lo pone in buona luce agli occhi di quanti dubitano della sua missione. Ma alla fine preferisce vantarsi delle sue debolezze: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte” (cfr. 2Cor 12,7-10). Dal contesto sembra trattarsi di una forma di tentazione nella quale Paolo era messo di fronte in modo bruciante alla propria debolezza, al punto che cercava rifugio nella preghiera e supplicava il Signore di liberarlo.

Forse Paolo aveva paura di fronte alla propria debolezza? Era forse per lui un’idea intollerabile? In ogni caso, Gesù non cede: la tentazione non viene risparmiata a Paolo, perché è molto più vantaggioso per lui restare nella tentazione in modo da imparare come la potenza di Dio è capace di agire al cuore della debolezza. La grazia non viene a innestarsi sulla nostra forza o sulla nostra virtù, ma unicamente sulla nostra debolezza e noi siamo forti solo quando la nostra debolezza ci diventa evidente: è il luogo benedetto in cui la grazia di Gesù può sorprenderci e invaderci. 

LA FORZA DI DIO NELLA DEBOLEZZA – P. A. Louf – 16 Maggio 2018

Una delle più antiche professioni di fede della chiesa, e una delle più convincenti, citata da Paolo nella sua seconda lettera ai Corinzi, esprime chiaramente questa tensione salutare tra la tentazione e la vittoria, tra la debolezza e la forza, fino ad applicarla alla pasqua di Gesù: “Egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio” (2Cor 13,4). Gesù fu crocifisso ed è morto a causa della debolezza dell’uomo, debolezza che ha preso su di sé fino all’estremo; ma a partire da questa debolezza è risuscitato e ora vive per la potenza di Dio. Proprio in questa debolezza, che è la nostra, Gesù ha incontrato la potenza di Dio, ed è a partire da questa debolezza che Dio lo ha risuscitato a nuova vita. Anche per Gesù la debolezza dell’uomo è stata il cammino che gli ha permesso di incontrare la potenza del Padre. Ecco perché il discepolo che vuole servire Gesù nel suo cammino deve necessariamente accettare a sua volta la propria debolezza e quindi la tentazione. Dopo che Gesù ha sofferto la nostra debolezza e ne è morto per risorgere, la potenza di Dio è nascosta al cuore di ogni debolezza umana, come un seme che si prepara a germinare grazie alla fede e all’abbandono. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza, la potenza di Dio non può agire in noi. 

LA CARNE DEBOLE – P. A. Louf – 15 Maggio 2018

Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto ma la carne è debole” (Mt 26,41).

Nessuno può sottrarsi a queste parole di Gesù: anche se il nostro spirito è più o meno ardente, la nostra carne rimane incurabilmente debole. Nessuno può sfuggire a questa disarmonia che arriva fino a una vera lotta tra le due realtà. In qualsiasi esperienza cristiana bisogna vivere così: combattuti tra il fervore e la debolezza, bisogna cioè vivere nella tentazione. Pietro, che diventerà il testimone principale della resurrezione di Gesù e sul quale poco dopo verrà edificata la chiesa, è anche quello che ha dovuto confrontarsi per primo con la tentazione e che, per primo, è stato trovato mancante ed è caduto. Non è per nulla sorprendente che, nel momento stesso in cui Gesù chiama Pietro, si imbatte nel suo peccato. Gesù non va in cerca di nessuna qualità eccezionale nei suoi primi discepoli: quello che cerca è la loro debolezza, i loro scacchi inconsci, le loro colpe insospettate, tutte quelle zone malate di ogni uomo che hanno bisogno del suo amore, che possono essere colte e assunte solo dall’amore, sulle quali il suo amore può intervenire con la sua onnipotenza. Gesù è venuto fino a noi proprio per prendere su di sé la nostra debolezza e per trasformarla in forza.

DIMORARE NELLA DEBOLEZZA E NELLA TENTAZIONE PER SPERIMENTARE LA GRAZIA – p. A. Louf – 14 Maggio 2018

Dio resta incrollabilmente fedele a noi: ebbene, questa fedeltà appare in maniera clamorosa nell’ora della tentazione. Non c’è fede che non sia tentata, come non c’è albero che non debba essere potato per portare più frutto (Gv 15,2). La Bibbia non ripete forse che la fedeltà di Dio si afferma, si rende visibile soprattutto nella tentazione? E inoltre, non ci ricorda forse quanto è necessario per noi attraversare la tentazione per crescere nella fede? Ascoltiamo Paolo: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13). Ma c’è soprattutto il famoso testo con il quale Giacomo inizia in modo così rude la sua lettera: “Miei fratelli, considerate piena letizia quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la perseveranza. E la perseveranza perfezioni l’opera in voi, perchè siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Gc 1,2-4).