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LA VOCAZIONE DELL’UOMO ALL’INCONTRO CON L’ALTRO – 2 Ottobre 2017   

L’uomo è considerato dalla tradizione antropologica occidentale essenzialmente come persona. Il concetto di persona rimanda al carattere relazionale dell’essere umano. L’uomo non trova in se stesso la propria ragion d’essere, né la sua completa realizzazione. Già per la corporeità che la connota, la persona umana è presente al mondo e ai suoi simili in un rapporto di reciprocità. Per questo l’uomo si ritrova al centro di una rete di relazioni, che va dall’ambiente in cui vive, agli altri uomini, alla dimensione trascendente. Il tipo di questa dimensione relazionale della persona è la relazione uomo-donna. È proprio attraverso questa fondamentale relazione che la persona si scopre chiamata alla reciprocità, al dialogo, all’incontro con l’altro. La dimensione sessuale assume così il valore peculiare dell’incontro e dell’integrazione con l’altro-da-sé.

Tanti dati positivi non possono non tener conto di quanto, nella medesima persona, contrasta in vario modo con quest’apertura e capacità di relazione. La stessa persona, fatta per la relazione, si ritrova spesso a vivere per se stessa, quando non nel conflitto con l’atro. Una mancata integrazione dei vari aspetti della personalità, fa sì che l’uomo sperimenti dolorosamente una divisione in se stesso, tra ciò che vede e riconosce come bene e ciò che contraddice questa sua aspirazione. In questa prospettiva antropologica, dalla quale ne deriva una di tipo pedagogico, si evidenzia anche il valore positivo del concetto di “crisi”. Essa può essere, infatti, proprio un’occasione positiva per integrare il proprio vissuto in un contesto di crescita.

 

( Dal piano per la formazione della Provincia Romana dei Frati Minori – 2003)

LA NOSTRA SPERANZA È CRISTO STESSO – 1 Ottobre 2017

Tutte queste intenzioni, le testimonianze ascoltate, le cose che ognuno di voi conosce nel suo cuore, storie di decenni di dolore e di sofferenza, le voglio porre davanti all’immagine del Crocifisso, il Cristo nero di Bojayá:

 

 

O Cristo nero di Bojayá,
che ci ricordi la tua passione e morte;
insieme con le tue braccia e i tuoi piedi
ti hanno strappato i tuoi figli
che cercarono rifugio in te.

 

O Cristo nero di Bojayá,
che ci guardi con tenerezza
e con volto sereno;
palpita anche il tuo cuore
per accoglierci nel tuo amore.

 

O Cristo nero di Bojayá,
fa’ che ci impegniamo
a restaurare il tuo corpo. Che siamo
tuoi piedi per andare incontro
al fratello bisognoso;
tue braccia per abbracciare
chi ha perso la propria dignità;
tue mani per benedire e consolare
chi piange nella solitudine.

 

Fa’ che siamo testimoni
del tuo amore e della tua infinita misericordia.
Amen.

 

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

 

UN CAMBIAMENTO POSSIBILE – 30 Settembre 2017

Tutti, alla fine, in un modo o nell’altro, siamo vittime, innocenti o colpevoli, ma tutti vittime, da una parte e dall’altra: tutti vittime. Tutti accomunati in questa perdita di umanità che la violenza e la morte comportano. Avete capito che anche i colpevoli di tante violenze sono delle vittime e avevano bisogno che loro fosse concessa un’opportunità. Quando l’avete detto, questa parola mi è risuonata nel cuore. E avete cominciato a studiare, e adesso lavorate per aiutare le vittime e perché i giovani non cadano nelle reti della violenza e della droga, che è un’altra forma di violenza. C’è speranza anche per chi ha fatto il male; non tutto è perduto. Gesù è venuto per questo: c’è speranza per chi ha fatto il male. Certamente, in questa rigenerazione morale e spirituale dei carnefici la giustizia deve compiersi. Come avete detto ma si deve contribuire positivamente a risanare questa società che è stata lacerata dalla violenza.

Risulta difficile accettare il cambiamento di quanti si sono appellati alla violenza crudele per promuovere i loro fini, per proteggere traffici illeciti e arricchirsi o per credere, illusoriamente, di stare difendendo la vita dei propri fratelli. Sicuramente è una sfida per ciascuno di noi avere fiducia che possano fare un passo avanti coloro che hanno procurato sofferenza a intere comunità e a tutto un paese. E’ chiaro che in questo grande campo che è la Colombia c’è ancora spazio per la zizzania. Non inganniamoci. Fate attenzione ai frutti: abbiate cura del grano e non perdete la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni allarmistiche. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché in apparenza siano imperfetti e incompleti (cfr Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, 24). Anche quando perdurano conflitti, violenza, o sentimenti di vendetta, non impediamo che la giustizia e la misericordia si incontrino in un abbraccio che assuma la storia di dolore della Colombia. Risaniamo quel dolore e accogliamo ogni essere umano che ha commesso delitti, li riconosce, si pente e si impegna a riparare, contribuendo alla costruzione dell’ordine nuovo in cui risplendano la giustizia e la pace.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

LE FERITE DEL CUORE – 29 Settembre 2017

Sono rimasto colpito quando, durante questa celebrazione, è stata portata in offerta una stampella. Mi ha colpito e mi sono commosso, per le parole che hanno accompagnato il gesto.

Le ferite del cuore sono più profonde e difficili da sanare di quelle del corpo. E ciò che è più importante, è che vi siete resi conto che non si può vivere nel rancore, che solo l’amore libera e costruisce. E in questo modo avete cominciato a guarire anche le ferite di altre vittime, a ricostruire la loro dignità. Questo uscire da voi stessi vi ha arricchito, vi ha aiutato a guardare in avanti, a trovare pace e serenità e anche un motivo per continuare a camminare. Vi ringrazio per il dono di questa stampella. Benché rimangano ancora le ferite, rimangano conseguenze fisiche delle vostre ferite, la vostra andatura spirituale è veloce e salda. Questa andatura spirituale non ha bisogno di stampelle; ed è rapida e salda perché pensate agli altri – grazie! – e volete aiutarli. Questa stampella è un simbolo di quell’altra stampella più importante, di cui tutti abbiamo bisogno, che è l’amore e il perdono. Col vostro amore e il vostro perdono state aiutando tante persone a camminare nella vita, e a camminare rapidamente come voi.

 

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

SPEZZARE LA CATENA DELLA VIOLENZA – 28 settembre 2017

L’oracolo finale del Salmo 85: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (v. 11) viene dopo il ringraziamento e la supplica in cui si chiede a Dio: Rinnovaci!

Grazie, Signore, per la testimonianza di coloro che hanno inflitto dolore e chiedono perdono; di quanti hanno sofferto ingiustamente e perdonano. Questo è possibile solo con il tuo aiuto e con la tua presenza, ed è già un segno enorme che tu vuoi ricostruire la pace e la concordia in questa terra colombiana. 

(Nella testimonianza che abbiamo riportato risulta molto chiaro che ci sono persone travolte da questa tragedia che …) vogliono mettere tutto il loro dolore, e quello di migliaia di vittime, ai piedi di Gesù Crocifisso, perché si unisca al loro e così sia trasformato in benedizione e capacità di perdono per spezzare la catena della violenza che ha regnato in Colombia. E hanno ragione: la violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile, e ciò è possibile soltanto con il perdono e la riconciliazione concreta. E voi ci avete dimostrato che questo è possibile. Con l’aiuto di Cristo, di Cristo vivo in mezzo alla comunità, è possibile vincere l’odio, è possibile vincere la morte, è possibile cominciare di nuovo e dare vita a una Colombia nuova. Grazie! Che gran bene fai oggi a tutti noi con le testimonianze della vostra vita! E’ il Crocifisso di Bojayá che vi ha dato la forza di perdonare e di amare, e vi ha aiutato a vedere nelle vostre ferire non solo il ricordo della loro morte ma la speranza che la pace trionfi definitivamente in Colombia. Grazie, grazie!

 

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

“LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO” (2Cor 5,20) – 27 Settembre 2017

Ci siamo riuniti ai piedi del Crocifisso di Bojayá (*), che il 2 maggio 2002 assistette e patì il massacro di decine di persone rifugiate nella sua chiesa. Questa immagine ha un forte valore simbolico e spirituale. Guardandola contempliamo non solo ciò che accadde quel giorno, ma anche tanto dolore, tanta morte, tante vite spezzate e tanto sangue versato nella Colombia degli ultimi decenni. Vedere Cristo così, mutilato e ferito, ci interpella. Non ha più braccia e il suo corpo non c’è più, ma conserva il suo volto e con esso ci guarda e ci ama. Cristo spezzato e amputato, per noi è ancora “più Cristo”, perché ci mostra ancora una volta che è venuto a soffrire per il suo popolo e con il suo popolo; e anche ad insegnarci che l’odio non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte e della violenza. Ci insegna a trasformare il dolore in fonte di vita e risurrezione, affinché insieme a Lui e con Lui impariamo la forza del perdono, la grandezza dell’amore.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

 

(*) Cristo Rotto o Cristo Nero di Bojayà, è il simbolo emblematico del peggior massacro che sia mai accaduto in Colombia.

Era presente durante l’Incontro di Riconciliazione Nazionale che ha presieduto Papa Francesco nel parco de Las Malocas, a Villavicencio, Colombia.

Il 2 Maggio del 2002 i membri del blocco 58 delle FARC lanciarono all’interno della Chiesa di Bojayà-Chocò, una bomba contente del gas che causò la morte di 100 persone e mutilò l’immagine del Cristo Crocifisso, lasciandola senza braccia e senza gambe.

L’attacco faceva parte delle rappresaglie delle FARC e delle forze paramilitari dell’AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), per avere il controllo del territorio.

Gli abitanti del posto rimasero incatenati a un fuoco incrociato e, per questo si rifugiarono in chiesa. Fu allora che venne compiuto il massacro.

Le persone del posto assieme ad alcuni seminaristi salvarono l’immagine e la conservarono finché non fu riposizionata a Bellavista.

Nel 2016 le guerrillas delle FARC chiesero pubblicamente perdono per la strage.

Il Cristo Nero rappresenta il dolore e le sofferenze del popolo, simboleggia i progetti di vita spezzati delle persone e della comunità, e riflette anche il dolore della società colombiana.

BASTA UNA PERSONA BUONA PERCHÉ CI SIA SPERANZA! – 26 Settembre 2017

La vedova Pastora Mira García, 61 anni, racconta al Papa la sua storia

 

 «Quando avevo sei anni, mio padre è stato ucciso. Anni dopo, mi sono presa cura dell’assassino, che era malato, vecchio e abbandonato. Quando mia figlia aveva due anni, il mio primo marito è stato ucciso. Sono subito andata a lavorare nella polizia, ma ho dovuto dimettermi per le minacce dei guerriglieri e dei paramilitari che si erano già stabiliti nella zona. Con grandi sforzi, ho aperto un negozio di giocattoli, ma continuavano le ritorsioni degli stessi gruppi, guerriglieri e paramilitari. E quindi ho donato tutto ciò che dovevo vendere. Nel 2001 i paramilitari hanno rapito mia figlia Sandra Paola. Ho trovato il suo cadavere solo dopo averla pianta per sette anni. Tutta questa sofferenza mi ha reso molto sensibile di fronte al dolore altrui e dal 2004 accompagno e lavoro con le famiglie vittime dei sequestri e degli allontanamenti forzati. Ma non è tutto. Nel 2005 il blocco Eroi di Granada dei paramilitari hanno assassinato Jorge Aníbal, il mio figlio minore. Dopo tre giorni dalla sepoltura ho accolto un giovane ferito e l’ho messo a riposare nella casa di Jorge Aníbal. Quando questo giovane ha visto le foto nella nostra casa, ci ha detto che era uno dei suoi assassini. Ci ha anche detto come era stato torturato prima di morire. Ora metto il dolore e la sofferenza delle migliaia di vittime della Colombia ai piedi di Gesù, del Gesù crocifisso, affinché possa aderire a Lui e attraverso la preghiera della sua santità essere trasformata in benedizione e in capacità di perdono, per rompere il ciclo di violenza che la Colombia ha sofferto negli ultimi cinquant’anni. Come segno di questa offerta del dolore depongo ai piedi del Cristo di Bojayá la camicia che mia figlia Sandra Paola, rapita, aveva regalato a mio figlio Jorge Aníbal, assassinato, e che noi custodiamo in famiglia come augurio che tutto questo non accada mai più. E che la pace trionfi in Colombia».

Papa Francesco : come ci fa bene ascoltare questa storia! Sono commosso. E’ una storia di sofferenza e di amarezza, ma anche, e soprattutto, è storia di amore e di perdono che ci parlano di vita e di speranza, di non lasciare che l’odio, la vendetta e il dolore si impadroniscano del nostro cuore.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

FARSI PROSSIMO – 25 Settembre 2017

Voi portate nel vostro cuore e nella vostra carne delle impronte, le impronte della storia viva e recente del vostro popolo, segnata da eventi tragici ma anche piena di gesti eroici, di grande umanità e di alto valore spirituale di fede e di speranza. Lo abbiamo ascoltato. Vengo qui con rispetto e con la chiara consapevolezza di trovarmi, come Mosè, a posare i piedi su una terra sacra (cfr Es 3,5). Una terra irrigata con il sangue di migliaia di vittime innocenti e col dolore lacerante dei loro familiari e conoscenti. Ferite che stentano a cicatrizzarsi e che ci addolorano tutti, perché ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone.

Io sono qui non tanto per parlare ma per stare vicino a voi e guardarvi negli occhi, per ascoltarvi e aprire il mio cuore alla vostra testimonianza di vita e di fede. E, se me lo permettete, vorrei anche abbracciarvi e, se Dio me ne dà la grazia – perché è una grazia – vorrei piangere con voi, vorrei che pregassimo insieme e che ci perdoniamo – anch’io devo chiedere perdono – e che così, tutti insieme, possiamo guardare e andare avanti con fede e speranza.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

L’INQUIETUDINE 

            Dopo la morte del fidanzato, nostra figlia Arianna, ha vissuto un momento e dei periodi della sua vita abbastanza tosti, soprattutto alla sera quando doveva andare a letto da sola nella camera. Le veniva su proprio un’inquietudine. Lei ci diceva sempre: «Papà, mamma, non mi bastano neanche gli amici. Non bastano neanche le cose belle che pur ho vissuto durante la giornata a far fuori questa inquietudine». Meno male che c’è qualcuno che è padre sul serio, molto più di me. Un giorno incrocia un amico sacerdote e gli parla di questo. La risposta che le ha dato è impressionante, perché noi vorremmo sempre risolvere l’inquietudine, il disagio, mascherarla, ridurla, annacquarla. Mentre lui le ha detto: «Arianna, ti invidio, perché anche io sono come te. Mi auguro che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita, perché essa è segno di un cuore grandemente ferito. Noi viviamo in un mondo che non può sopportare un cuore grandemente ferito e quindi tenderà sempre a ridurre questa ferita, a farla diventare piccola, ma con una ferita piccola ti accontenterai di risposte piccole, mentre con una ferita grande avrai bisogno della risposta grande, cioè di Gesù. Adesso sta a te decidere come vuoi vivere».

Una ferita è come una finestra: più è grande, più è aperta e più dalla finestra entrano luce e aria; più la restringi, se non addirittura la chiudi, e più non entra né aria né luce. È un esempio che ha fatto anche il Santo Padre: «Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno» (Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013). Che cosa volete? Vivere tutta la vita in una stanza chiusa?

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

LA PAURA DEL LIMITE

Spesse volte abbiamo paura del limite. Il limite, la nostra umanità, il nostro disagio. E qui il professionista di chi non ha paura del limite si chiama Lele, sempre mio figlio. Lui è un tipo esuberante. Quando ha un rapporto con qualcuno, normalmente succedono questi tre fatti in serie: tentativo di metterti un dito in un occhio, dopo di che un pizzicotto e altro. Comunque questi due gesti bastano. Il suo approccio all’altro è sempre così. Dopo di che – dal momento che non è scemo – si accorge che l’altro lo guarda male. Ma è normale, la vita è fatta così. Lo guarda male, allora lui gira la testa verso i genitori… che lo guardano peggio! E cosa succede, a un certo punto? Che dentro questo sguardo brutto, sia di chi è stato colpito che dei genitori, tenta di abbracciare il mal capitato. E fin quando il mal capitato non lo riabbraccia, lui insiste. Semplice. L’istante dopo, di nuovo dito in un occhio, pizzicotto e via. Immaginate ventiquattro ore, o dodici che siano, per trentasei anni così. Del suo limite il Lele se ne frega. Il suo limite gli serve soltanto per essere abbracciato. Per me questa cosa è bellissima.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

IN SILENZIO A GUARDARE LA SUA LIBERTÀ 

Si intuisce che quando uno corre ha un passo per cui si gode la vita mentre tu in quel momento vedi tutto nero e non ti godi la vita, ti dà un po’ fastidio che lui o lei si goda la vita. Nel tempo Angela e io siamo arrivati a capire una cosa: prima era tutto un «fermati, rallenta, scendi un po’ al mio livello!»; e così ci si rovina tutti e due. Quando tu dici: «Fermati!» e l’altro si ferma, chi di solito arranca riesce a convincere l’altro che è quasi più giusto arrancare che correre. Invece arrivi al punto in cui dici: «Caspita, sta correndo. Che bello che corre!». Che bello che corre, perché la volta dopo puoi essere tu a correre. E quando tu arrivi a dire: «Che bello che corri!» scatta una cosa molto semplice: che quando capita a te di correre ti volti indietro e dici: «Corri anche tu», non: «Mi fermo». E questo è un amore che sorregge. Correre verso dove? Che cos’è questo correre? Correre a casa perché c’è Gesù che ti aspetta, salire sul sicomoro come Zaccheo e correre incontro a Gesù. Fra due persone si intuisce quando uno sta correndo e l’altro no. Si intuisce. Si capisce.

            «Che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita».

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

AMARE LA DRAMMATICITÀ DI UN CAMMINO – La questione della libertà, ossia la strada da percorrere

La questione della libertà, ossia la strada da percorrere

 

Che certezza devo avere io? Che certezza devo avere non delle mie capacità e di ciò che Dio compirà? È come quando a mia figlia Arianna è morto il fidanzato. Il padre al mattino mi telefona dicendomi: «Enrico, è morto Giovanni. Devi andare a dirlo all’Arianna». Non riuscivo a entrare nella stanza dell’Arianna per dirle quello che era successo. Non ce la facevo. Poi mi è venuto su un pensiero semplicissimo: «Enrico, ma tu ti ritieni più intelligente di Cristo che ha creato l’Arianna, pensi veramente di sapere tu meglio di Cristo di che cosa lei abbia bisogno per diventare una donna?». Solo questo pensiero mi ha permesso di aprire la porta e di dire all’Arianna quello che dovevo. Quando non sai che risposte dare dal momento, che nel 99% dei casi io risposte non ne so dare; oppure quando tu ti immagini una risposta, pensi che sia quella la cosa giusta da dire, da fare, mi vien su questo pensiero: «Ma tu, Enrico, sei più intelligente di Cristo da sapere di che cosa ha bisogno quella persona?». E perché mi è venuto un pensiero come questo? Per l’appartenenza a una compagnia come la nostra, con un figlio disabile che adagio adagio mi ha educato e ha modificato un po’ il mio cervello, la mia mentalità, una compagnia che mi aiuta a mettere dentro le cose anche il fattore ultimo che sta all’origine di tutto: il Mistero, un Mistero incontrato, un Mistero che si è fatto compagnia. Questa è diventata per me una cosa imprescindibile.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

OCCHI COLMI DI BELLEZZA – 20 Settembre 2017

Spesse volte noi abbiamo fretta nella vita.

È come se il tempo fosse contro di noi. Invece è paradossale vedere come il tempo ci è dato per lasciare emergere qualcosa di bello anche da una realtà così dura e faticosa. In fondo in fondo era questo il desiderio che avevo: che da una realtà che mi sembrava così difficile, così complessa, quasi impossibile, potesse venire fuori una bellezza. L’ho desiderato soprattutto in quei quattro anni in cui la vita è stata veramente dura, veramente faticosa, quasi al limite dell’impossibile. Quattro anni in cui, più procedeva il tempo e più mi mancava l’aria, più respiravo con affanno, con fatica; quattro anni in cui sembrava che tardasse ad arrivare la risposta al desiderio di bellezza che qualcuno mi aveva messo nel cuore.

Che cosa deve capitare perché́ una realtà così dura possa incominciare a parlare, a far venire fuori qualcosa che ti aspetti, ma che non sai? Occorre che accada una cosa semplicissima, quella che è capitata a me una sera, dopo quei primi anni così duri: eravamo a tavola, io davo da mangiare a Daniele, mentre Angela, seduta davanti a me, dava da mangiare a Paolo; quella sera – di sere come quella ce n’erano state tante in quattro anni, ma quella sera fu diversa −, alzando gli occhi ho incrociato quelli di mia moglie e li ho visti lieti, ho visto due occhi che guardavano la realtà di quei due figli come io non ero capace di guardare. Anch’io guardavo quei due figli, ma la realtà non mi parlava, mi era come nemica. Lei, invece, guardava quei due figli ed era lieta. Immediatamente – come diceva ieri don Eugenio, dopo mezz’ora dall’incontro con Gesù a casa sua, Zaccheo ha deciso di restituire quattro volte tanto quello che aveva rubato −, in quell’istante, dentro quell’istante, è successa una cosa semplicissima: mi è venuta su un’invidia per quei due occhi di mia moglie e un desiderio di averli anch’io. E subito dopo mi è venuta su una domanda grande come una casa, la grande domanda: «Ma cosa vede lei che io non vedo? Eppure guardo anch’io, ma lei cosa vede che io non vedo?».

Quello è stato l’istante più decisivo della mia vita, perché da quel momento ciò che prima era un peso, una fatica, è diventato un’avventura. Ma non un’avventura per cambiare la realtà, non uno sforzo per modificarla, non uno sforzo per eliminare il limite dei miei figli; no, no. È diventata un’avventura per cercare di capire chi era in grado di dare uno sguardo così a mia moglie (Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017).