L’INQUIETUDINE 

            Dopo la morte del fidanzato, nostra figlia Arianna, ha vissuto un momento e dei periodi della sua vita abbastanza tosti, soprattutto alla sera quando doveva andare a letto da sola nella camera. Le veniva su proprio un’inquietudine. Lei ci diceva sempre: «Papà, mamma, non mi bastano neanche gli amici. Non bastano neanche le cose belle che pur ho vissuto durante la giornata a far fuori questa inquietudine». Meno male che c’è qualcuno che è padre sul serio, molto più di me. Un giorno incrocia un amico sacerdote e gli parla di questo. La risposta che le ha dato è impressionante, perché noi vorremmo sempre risolvere l’inquietudine, il disagio, mascherarla, ridurla, annacquarla. Mentre lui le ha detto: «Arianna, ti invidio, perché anche io sono come te. Mi auguro che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita, perché essa è segno di un cuore grandemente ferito. Noi viviamo in un mondo che non può sopportare un cuore grandemente ferito e quindi tenderà sempre a ridurre questa ferita, a farla diventare piccola, ma con una ferita piccola ti accontenterai di risposte piccole, mentre con una ferita grande avrai bisogno della risposta grande, cioè di Gesù. Adesso sta a te decidere come vuoi vivere».

Una ferita è come una finestra: più è grande, più è aperta e più dalla finestra entrano luce e aria; più la restringi, se non addirittura la chiudi, e più non entra né aria né luce. È un esempio che ha fatto anche il Santo Padre: «Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno» (Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013). Che cosa volete? Vivere tutta la vita in una stanza chiusa?

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

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