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EDUCARE (= educare: condurre fuori da…, tirar fuori ciò che sta dentro) -12 Settembre 2017

Questa è l’educazione: se io generazione dei padri non ho nessun progetto da comunicare voi capite che l’educazione diventa impossibile. Si dice: «Io non voglio comunicare nulla, perché quando poi sarà arrivata l’età giusta farà le sue scelte». Questo pensiero genera degli schiavi, siatene certi.

Non può accadere il rapporto educativo fra le generazioni se colui che trasmette non ha l’autorità di poter dire: «Questo che ti trasmetto è il progetto di una vita buona, cioè di una vita che ti può fare felice, che ti può rendere vero e giusto». Questo è il principio di autorità.

Tutto questo che vi ho detto non viene messo in crisi, viene semplicemente distrutto se noi accettiamo il dogma del relativismo, perché a quel punto una proposta vale l’altra, un progetto vale l’altro.

Questa è la condizione, ormai una sorta di afasia, cioè non sapere più parlare, da parte della generazione dei padri nei confronti dei figli, e poi l’oscurarsi di appartenere ad una storia, ad una tradizione nel senso alto del termine come condizione, come terreno in cui la mia umanità può fiorire.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

L’EMERGENZA EDUCATIVA – 11 Settembre 2017

Nella condizione in cui ci troviamo l’atto educativo, l’educare, questa azione dell’educare, non è diventata difficile, è diventata impossibile. Perché è diventata impossibile? Perché è diventata impensabile, cioè è impensabile l’educare, non l’istruire, anche perché l’istruzione alla fine è una processo anche molto impersonale. È diventato impensabile, perché l’educazione essenzialmente consiste nella trasmissione di un progetto di vita che la generazione dei padri compie nei confronti della generazione dei figli, sulla base di una forte autorevolezza che fa dire alla generazione dei padri: «Questo è il progetto vivendo il quale tu vivi una vita buona, bella, giusta».

Per spiegare bene il mio concetto vi ricordo un rito che avviene nella cena pasquale ebraica. Voi sapete che la Pasqua ebraica, diversamente dalla Pasqua cristiana, è una festa esclusivamente familiare. Cioè la Pasqua la si celebra solamente in famiglia. La cena è il momento più grande della celebrazione familiare della Pasqua, la cena pasquale, come ha fatto Gesù con gli apostoli, è regolata da un rito molto molto preciso, che deve essere rigorosamente seguito dal capotavola. Ad un certo momento il più piccolo che è a tavola deve, secondo il rito, chiedere al più anziano, a capotavola: «Ma cos’è questa cena? Ma perché mangiamo solo verdure amare?». Quello a capotavola doveva rispondere così: «Perché eravamo schiavi sotto il faraone, il Signore ha ascoltato le nostre grida, noi siamo stati liberati». Narrava tutta la storia del popolo di Israele non come una serie di eventi che semplicemente bisognava imparare, ma una serie di eventi che ti aiutavano a vivere ora. Se noi riflettiamo un momento su questo rito, qui vediamo proprio in atto quella definizione di azione educativa che vi dicevo prima. Una generazione che, come dice il salmo, narra all’altra le meraviglie del Signore.

Attraverso l’atto educativo il bambino diventa consapevole di appartenere ad una storia, cioè ad un popolo.

Questa consapevolezza di una tradizione vivente che il nonno e i genitori gli stanno trasmettendo è ciò che assicura a lui la vera libertà. Prima erano schiavi!

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

DIVENTARE AMICO DEL POVERO – 10 Settembre 2017

         A contatto con la fragilità e con la sofferenza delle persone con disabilità mentale, ricevendo la loro fiducia, sentivo nascere in me sorgenti nuove di tenerezza. Li amavo ed ero felice di stare con loro. Risvegliavano una parte del mio essere che fino a quel momento era stata sottosviluppata, atrofizzata. Mi aprivano un altro mondo, non più un mondo di forza e successo, di potere ed efficienza, ma del cuore, della vulnerabilità e della comunione. Mi conducevano su un cammino di guarigione e di unità interiore.

         Diventare amico del povero è esigente. Ci àncora alla realtà della sofferenza. Impossibile fuggire nelle idee e nei sogni! Il richiamo del povero alla solidarietà ci obbliga a fare scelte, ad approfondire la nostra vita spirituale, a mettere l’amore al centro delle nostre vite e del quotidiano. Ci trasforma.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

LA TRASFORMAZIONE DEL CUORE – 9 Settembre 2017

         Diventare amico di Raphaël e Philippe e vivere un’alleanza con loro, un patto sacro, ha implicato per me un grande cambiamento. Per educazione ero un uomo efficiente e rapido, che prendeva da solo le proprie decisioni. Ero uomo d’azione prima di essere uomo d’ascolto. In marina avevo colleghi, ma non veri amici. Essere amico, significa diventare vulnerabile, lasciare cadere le proprie maschere e le proprie barriere per accogliere l’altro in sé, così come è, con la sua bellezza e i suoi doni, la sua debolezza e le sue ferite interiori. Significa piangere quando piange, ridere quando ride. Avevo creato molte barriere attorno al mio cuore, per proteggere la mia vulnerabilità. All’Arca non si trattava più di “salire” di grado, diventando sempre più efficiente e riconosciuto, ma di “scendere”, di “perdere” il mio tempo nelle relazioni con persone con disabilità mentale, per costruire con loro una comunità, un luogo di comunione e di alleanza.

         Dovevo imparare che cosa significasse amare davvero qualcuno, entrando in comunione con lui. Amare qualcuno è certamente voler fare qualcosa per lui, ma è soprattutto essergli presente per rivelargli la sua bellezza e il suo valore, e aiutarlo ad avere fiducia in se stesso.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

 

UNA SOCIETA’ COMPETITIVA – 8 Settembre 2017

         Le nostre società occidentali – essendo società di consumo che spingono all’individualismo – sono competitive. Fin dalla scuola ai bambini si insegna ad essere i primi e a vincere per poter essere ammirati.
         La competizione ha un aspetto positivo: sviluppa al massimo le energie e le capacità. Spinge a dare il meglio di sé. Ma essa ha anche degli aspetti negativi. Per uno che vince, quanti perdono, si scoraggiano e non riescono a sviluppare le proprie capacità? Incapaci di emergere, cadono sempre più giù nella mancanza di autostima. Coloro che hanno salito la scala della promozione sociale, tendono spesso a disprezzare coloro che non ci sono riusciti.
         Anch’io facevo parte di questo mondo competitivo.
         Poi ho incontrato Raphaël e Philippe in un manicomio vicino a Parigi, dove erano rinchiusi dietro a muri imponenti. Era un luogo lugubre. La prima cosa che ho scoperto vivendo con Raphaël e Philippe è stata la profondità della loro sofferenza. Col tempo ho realizzato come la vita comunitaria tra persone con disabilità mentale e persone venute per condividere la loro vita andasse controcorrente rispetto alla cultura corrente.
         Poco tempo dopo l’inizio dell’Arca, ho scoperto una frase del vangelo di Luca, in cui Gesù dice:

         Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato (Lc 14,12-14).

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

I DUE MONDI DI OGGI – 7 Settembre 2017

   I due mondi che esistevano al tempo di Gesù, esistono anche oggi in tutti i nostri paesi, nei nostri villaggi e nelle nostre città, e in ciascuno dei nostri cuori.

   Il ricco è colui che crede di bastare a se stesso e non riconosce il proprio bisogno di amore e le necessità dell’altro. In ciascuno di noi vive un ricco. Esistono anche i ricchi di beni materiali e culturali, persino di beni spirituali, soddisfatti di se stessi, vivono nel lusso, chiusi nella ricchezza, nel potere e nei privilegi. Hanno abbondanza di quelle cose che però non soddisfano in profondità. Posseggono più del necessario e vogliono possedere sempre di più, intrappolati in un circolo vizioso di insoddisfazione, non riconosciuta, del cuore! Incapaci di comprendere la propria debolezza, disprezzano gli altri, soprattutto quelli che sono diversi o deboli.

   Ed esistono sempre i poveri e gli esclusi, considerati incapaci di inserirsi nella società. Sono i mendicanti, i “senza fissa dimora”, gli immigrati, i disoccupati, le vittime di abuso, i malati di mente, le persone con una disabilità fisica o mentale; sono i vecchi abbandonati. Sono tutti coloro che soffrono di malnutrizione e di fame; sono tutti i rifugiati che fuggono dall’odio e dalla guerra. Tutti costoro sono prigionieri di un’immagine ferita di se stessi.

   Oggi il messaggio di Gesù è lo stesso di sempre: egli è venuto per riunire i figli di Dio dispersi e dare loro la vita in abbondanza. Vuole abolire l’odio, i pregiudizi e le paure che separano le persone e i gruppi, creare in questo mondo diviso luoghi di unità, di riconciliazione e di pace, chiamando i ricchi alla condivisione e i poveri alla speranza.

 

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

 

 

GESU’ STESSO DIVENTA POVERO – 6 Settembre 2017

   Gesù stesso diventa povero; il Verbo si fa carne, l’Onnipotente diventa un bambino indifeso che risveglia l’amore nei nostri cuori. Le sue parole, il suo modo di essere confondono tutti, soprattutto i potenti, che rifiutano di ascoltarlo; non lo accettano, cercano anche di farlo morire e infine lo consegnano al potere civile, il potere romano. Gesù è condannato a morte e muore nella più totale abiezione: tutti si beffano di lui. Il compassionevole diventa colui che ha bisogno di compassione, il povero. Gesù sovverte l’ordine stabilito: non si tratta più di “fare del bene” ai poveri, ma di scoprire nella relazione con lui e con loro che Dio è nascosto nel povero. Mediante le sue azioni, e la sua vulnerabilità assoluta, Gesù ci rivela che il povero e il debole hanno il potere di guarire e liberare.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

 

LA BUONA NOVELLA – 5 Settembre 2017

   Gesù invita i suoi discepoli a occupare l’ultimo posto, a non cercare il potere, anche se fosse per il bene, ma a servire come degli schiavi: « Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc 14,11). « Dio rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili » (Lc 1,52), dice Maria nel suo Magnificat.

   Gesù porta una visione completamente nuova. Dio non è più soltanto un essere buono e compassionevole, che veglia sui poveri e chiama i ricchi alla condivisione come, per esempio, già in Isaia:

Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: « Eccomi! ». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono (Is 58,6-11).

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

UNA SPIRITUALITÀ CENTRATA SUL MISTERO DEL POVERO – 4 Settembre 2017

   Al tempo di Gesù c’erano molte persone povere, oppresse , cieche, rifiutate; molte persone lebbrose, sofferenti non soltanto per le loro piaghe, ma anche per il disprezzo e il rifiuto della società. Erano “intoccabili”, toccarli rendeva impuri. La loro malattia era considerata una punizione data da Dio. Tutte queste persone erano escluse, chiuse nella loro tristezza, in sensi di colpa e in una immagine di se stessi spezzata. Non avevano né avvenire né speranza. Gesù è venuto a rivelare a ciascuno che è importante e amato da Dio. Questa è la buona novella.

   Vi erano anche i ricchi, che detenevano potere. Erano soddisfatti di se stessi; erano realizzati, avevano privilegi e beni, si credevano benedetti da Dio. Due mondi separati da un muro: i ricchi che tendevano a disprezzare i poveri e questi ultimi che tendevano a chiudersi in questo rifiuto e nella loro tristezza.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

SALUTO ALLA BEATA VERGINE MARIA – 3 Settembre 2017

Ave, Signora, santa regina, santa Madre di Dio, Maria
che sei vergine fatta Chiesa
ed eletta dal santissimo Padre celeste, che ti ha consacrata
insieme col santissimo suo Figlio diletto e con lo Spirito Santo Paraclito;
tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene.
Ave, suo palazzo, ave, suo tabernacolo, ave, sua casa.
Ave, suo vestimento, ave, sua ancella, ave, sua Madre.

(Fonti Francescane, 259)

IL CONTESTO – 2 Settembre 2017

Ci sono tre ambiti esistenziali, tra loro interconnessi, che costituiscono il contesto spirituale da cui ha origine il Testamento. La coscienza di fede (il passato), nei confronti di una storia raccontata come frutto dell’iniziativa di Dio e della disponibilità operosa di Francesco nell’aderire a questa rivelazione, è la prima e fondamentale certezza che sorregge questo testo. Tale coscienza ha un diretto riflesso sulla seconda caratteristica esistenziale presente nel Testamento: la volontà di Francesco di accettare ancora (il presente) la fatica di tenere insieme sia l’obbedienza e la sottomissione ai frati e agli sviluppi dell’Ordine, sia la responsabilità nei confronti di un’intuizione da difendere e mantenere viva. In ogni caso, tutta l’operazione legata al Testamento non è vissuta da Francesco come tentativo disperato o arrogante di difendere una sua proprietà, ma come servizio appassionato verso i suoi frati (il futuro), fedele alla loro cura affidatagli da Dio. In questi tre elementi, mi sembra, si riassumono i sentimenti che hanno guidato l’uomo Francesco nella formulazione del suo Testamento.

L’APPARTENENZA – 1 Settembre 2017

«Chi sostiene la persecuzione piuttosto che volersi separare dai suoi fratelli, rimane veramente nella perfetta obbedienza, poiché sacrifica la sua anima per i suoi fratelli»
(Fonti Francescane 150, 9)

 

La trama drammatica della Perfetta letizia, sembra potersi relazionare ad un altro scritto: l’esortazione proposta da Francesco ai suoi frati nell’Ammonizione III, a non abbandonare e separarsi dagli altri nonostante le possibili divergenze tra loro, costituisce il frutto dell’esperienza personale che lo stava accompagnando negli ultimi anni. Ed è proprio questa profonda coscienza di appartenenza ai suoi fratelli, dai quali non si separa nonostante le fratture e le tensioni per una fedeltà al mandato affidatogli da Dio, che sostiene e anima Francesco nello scrivere il Testamento. Rinuncia al “potere” giuridico, ma non rinuncia alla passione per i suoi frati, restando unito ad essi per servirli nell’unico e ultimo servizio che poteva offrire loro: indicare ad essi, con umiltà e risolutezza, la via che Dio gli aveva rivelato.

 

LA PASSIONE PER I SUOI FRATI – 31 Agosto 2017

          La passione per i suoi frati, quale atteggiamento di servizio a vantaggio dei loro bisogni, acquista un ennesimo valore e una rinnovata forza se si tiene presente quanto si è già ricordato sulle dolorose difficoltà di relazioni sviluppate tra Francesco e i suoi negli ultimi anni di vita del Santo. Abbiamo già avuto modo di rinviare al racconto della Perfetta letizia quale sintesi parabolica del grande travaglio vissuto da Francesco alla fine della sua vita. Il portinaio, quella notte di inverno freddo e fangoso, aveva ben capito che chi stava bussando era «frate Francesco» e, dopo un iniziale tentativo di mascherare il vero motivo del rifiuto ad aprirgli adducendo ragioni di ordine morale («non è ora decente questa di andare in giro»), gli rivela il vero perché di quella porta chiusa: «Non abbiamo più bisogno di te».

          La conclusione del testo è tanto famosa quanto ambigua nei suoi esiti: «Io ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò inquietato, in questo è vera letizia e vera virtù e la salvezza dell’anima». La pazienza di cui parla Francesco non è semplicemente la capacità di sopportare l’ingiustizia con uno spirito di rassegnazione. Essa è molto di più e molto più impegnativa. È la capacità di restare accanto ai suoi frati, di prendersi cura di essi, di restare al servizio delle loro anime sebbene quella porta rimasta chiusa manifesti il tragico rifiuto della sua persona. Nonostante quelle dure parole rivoltegli dal portinaio, Francesco sa di non poter abbandonare i suoi frati: gli erano stati affidati da Dio.

LA PRIMA ESPERIENZA FRATERNA – 30 Agosto 2017

[116]     E dopo che il Signore mi dette dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
[117]     E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
[119]     Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio.
[121]     Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace!”.

dal  TESTAMENTO DI FRANCESCO D’ASSISI (Fonti Francescane 116, 117, 119, 121)

I caratteri fondamentali della primitiva esperienza fraterna ricordarti da Francesco sono tanto semplici quanto in continuità con la sua intuizione personale: la scelta della povertà materiale cresciuta nella letizia, la preghiera semplice rivolta a Dio senza il bisogno di attirare la gente, la scelta della sudditanza e della minorità rifiutando ogni posizione di potere e di privilegio nella società, il lavoro manuale come modo quotidiano di mantenersi, ricorrendo all’elemosina come gli altri poveri, solo nei casi di necessità. 

Soltanto queste condizioni potevano rendere credibile ed efficace il messaggio di pace che avevano scelto quale tema fondamentale della loro evangelizzazione. Assumere scelte adeguate e fedeli alla propria vocazione minoritica per servire con prontezza ed efficacia alle richieste di misericordia e di evangelizzazione che vengono dal mondo, è possibile, dice Francesco ai suoi frati nel Testamento, solo se ripartirete ogni volta dalla storia incredibile che Dio ha fatto con me. Questa è l’”eredità preziosa” racchiusa nello scrigno del suo Testamento

FRANCESCO, UOMO RESPONSABILE – 29 Agosto 2017

Francesco, uomo responsabile – 29 agosto 2017

[110]     Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
[111] E il Signore mi dette tale fede nelle chiese che io così semplicemente pregavo e dicevo: 
Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo 
qui e in tutte le tue chiese
che sono nel mondo intero,
e ti benediciamo, 
perché con la tua santa croce hai redento il mondo.

dal  TESTAMENTO DI FRANCESCO D’ASSISI (Fonti Francescane 110 – 111)

Nel Testamento la prima e fondamentale notizia offerta da Francesco è molto chiara e precisa: non è stato lui a scegliere quella vita. Essa non fu il frutto di un calcolo e piano religioso per realizzare un progetto personale di vita migliore e più perfetta. Tutto gli fu dato da Dio.

Alla sorpresa dell’agire di Dio, corrisponde però la libertà e la risolutezza con cui Francesco aderisce all’iniziativa divina. Di fronte al Dio che fa la storia, vi è è un uomo che responsabilmente assume un ruolo attivo: prende posizione e aderisce agli avvenimenti riconosciuti come luoghi, misteriosi ma anche sicuri, del mostrarsi della volontà del Signore. In questo rapporto tra Dio e Francesco, nasce e si sviluppa l’esistenza cristiana definita nella sua globalità come un «vivere nella penitenza» cioè come un riconoscimento dell’agire sorprendente di Dio e un’adesione a Lui nella libertà per lasciarsi condurre dalla volontà divina.

Il racconto fatto dal Santo sulla sua crescita cristiana fissa due importanti doni ricevuti da Dio che costituirono la sua identità: Dio gli donò l’incontro con il volto dei lebbrosi per fare con essi misericordia e il volto del Cristo crocifisso ed ecclesiale per aderire ad esso nella fede. Gli fu chiesto di diventare un uomo di misericordia e un uomo di fede: essi divennero i caratteri risolutivi della sua persona. In ambedue i momenti, gli fu chiesto di uscire da sé, cioè di liberarsi dall’antico male, rappresentato dall’autocentratura, per guardare ad un altro volto, consegnandosi ad esso nella misericordia e nella fede. Solo un uomo che ha vissuto la misericordia con gli ultimi, mediante la logica del dono gratuito realizzato attraverso il meccanismo dell’abbassamento e della sostituzione, potrà scoprire il mistero del volto crocifisso e riconoscerlo anche nei tratti della Chiesa; come, d’altro canto, solo lo sguardo di Francesco che adora Colui che per noi si è fatto lebbroso e resta presente nell’umiltà dell’Eucaristia potrà, poi, non fuggire davanti a quei volti scandalosi e per questo emarginati da tutti.