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“LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO” (2Cor 5,20) – 27 Settembre 2017

Ci siamo riuniti ai piedi del Crocifisso di Bojayá (*), che il 2 maggio 2002 assistette e patì il massacro di decine di persone rifugiate nella sua chiesa. Questa immagine ha un forte valore simbolico e spirituale. Guardandola contempliamo non solo ciò che accadde quel giorno, ma anche tanto dolore, tanta morte, tante vite spezzate e tanto sangue versato nella Colombia degli ultimi decenni. Vedere Cristo così, mutilato e ferito, ci interpella. Non ha più braccia e il suo corpo non c’è più, ma conserva il suo volto e con esso ci guarda e ci ama. Cristo spezzato e amputato, per noi è ancora “più Cristo”, perché ci mostra ancora una volta che è venuto a soffrire per il suo popolo e con il suo popolo; e anche ad insegnarci che l’odio non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte e della violenza. Ci insegna a trasformare il dolore in fonte di vita e risurrezione, affinché insieme a Lui e con Lui impariamo la forza del perdono, la grandezza dell’amore.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

 

(*) Cristo Rotto o Cristo Nero di Bojayà, è il simbolo emblematico del peggior massacro che sia mai accaduto in Colombia.

Era presente durante l’Incontro di Riconciliazione Nazionale che ha presieduto Papa Francesco nel parco de Las Malocas, a Villavicencio, Colombia.

Il 2 Maggio del 2002 i membri del blocco 58 delle FARC lanciarono all’interno della Chiesa di Bojayà-Chocò, una bomba contente del gas che causò la morte di 100 persone e mutilò l’immagine del Cristo Crocifisso, lasciandola senza braccia e senza gambe.

L’attacco faceva parte delle rappresaglie delle FARC e delle forze paramilitari dell’AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), per avere il controllo del territorio.

Gli abitanti del posto rimasero incatenati a un fuoco incrociato e, per questo si rifugiarono in chiesa. Fu allora che venne compiuto il massacro.

Le persone del posto assieme ad alcuni seminaristi salvarono l’immagine e la conservarono finché non fu riposizionata a Bellavista.

Nel 2016 le guerrillas delle FARC chiesero pubblicamente perdono per la strage.

Il Cristo Nero rappresenta il dolore e le sofferenze del popolo, simboleggia i progetti di vita spezzati delle persone e della comunità, e riflette anche il dolore della società colombiana.

BASTA UNA PERSONA BUONA PERCHÉ CI SIA SPERANZA! – 26 Settembre 2017

La vedova Pastora Mira García, 61 anni, racconta al Papa la sua storia

 

 «Quando avevo sei anni, mio padre è stato ucciso. Anni dopo, mi sono presa cura dell’assassino, che era malato, vecchio e abbandonato. Quando mia figlia aveva due anni, il mio primo marito è stato ucciso. Sono subito andata a lavorare nella polizia, ma ho dovuto dimettermi per le minacce dei guerriglieri e dei paramilitari che si erano già stabiliti nella zona. Con grandi sforzi, ho aperto un negozio di giocattoli, ma continuavano le ritorsioni degli stessi gruppi, guerriglieri e paramilitari. E quindi ho donato tutto ciò che dovevo vendere. Nel 2001 i paramilitari hanno rapito mia figlia Sandra Paola. Ho trovato il suo cadavere solo dopo averla pianta per sette anni. Tutta questa sofferenza mi ha reso molto sensibile di fronte al dolore altrui e dal 2004 accompagno e lavoro con le famiglie vittime dei sequestri e degli allontanamenti forzati. Ma non è tutto. Nel 2005 il blocco Eroi di Granada dei paramilitari hanno assassinato Jorge Aníbal, il mio figlio minore. Dopo tre giorni dalla sepoltura ho accolto un giovane ferito e l’ho messo a riposare nella casa di Jorge Aníbal. Quando questo giovane ha visto le foto nella nostra casa, ci ha detto che era uno dei suoi assassini. Ci ha anche detto come era stato torturato prima di morire. Ora metto il dolore e la sofferenza delle migliaia di vittime della Colombia ai piedi di Gesù, del Gesù crocifisso, affinché possa aderire a Lui e attraverso la preghiera della sua santità essere trasformata in benedizione e in capacità di perdono, per rompere il ciclo di violenza che la Colombia ha sofferto negli ultimi cinquant’anni. Come segno di questa offerta del dolore depongo ai piedi del Cristo di Bojayá la camicia che mia figlia Sandra Paola, rapita, aveva regalato a mio figlio Jorge Aníbal, assassinato, e che noi custodiamo in famiglia come augurio che tutto questo non accada mai più. E che la pace trionfi in Colombia».

Papa Francesco : come ci fa bene ascoltare questa storia! Sono commosso. E’ una storia di sofferenza e di amarezza, ma anche, e soprattutto, è storia di amore e di perdono che ci parlano di vita e di speranza, di non lasciare che l’odio, la vendetta e il dolore si impadroniscano del nostro cuore.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

FARSI PROSSIMO – 25 Settembre 2017

Voi portate nel vostro cuore e nella vostra carne delle impronte, le impronte della storia viva e recente del vostro popolo, segnata da eventi tragici ma anche piena di gesti eroici, di grande umanità e di alto valore spirituale di fede e di speranza. Lo abbiamo ascoltato. Vengo qui con rispetto e con la chiara consapevolezza di trovarmi, come Mosè, a posare i piedi su una terra sacra (cfr Es 3,5). Una terra irrigata con il sangue di migliaia di vittime innocenti e col dolore lacerante dei loro familiari e conoscenti. Ferite che stentano a cicatrizzarsi e che ci addolorano tutti, perché ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone.

Io sono qui non tanto per parlare ma per stare vicino a voi e guardarvi negli occhi, per ascoltarvi e aprire il mio cuore alla vostra testimonianza di vita e di fede. E, se me lo permettete, vorrei anche abbracciarvi e, se Dio me ne dà la grazia – perché è una grazia – vorrei piangere con voi, vorrei che pregassimo insieme e che ci perdoniamo – anch’io devo chiedere perdono – e che così, tutti insieme, possiamo guardare e andare avanti con fede e speranza.

(Papa Francesco, viaggio in Colombia, Liturgia di Riconciliazione – Parque Las Malocas – Venerdì, 8 settembre 2017)

L’INQUIETUDINE 

            Dopo la morte del fidanzato, nostra figlia Arianna, ha vissuto un momento e dei periodi della sua vita abbastanza tosti, soprattutto alla sera quando doveva andare a letto da sola nella camera. Le veniva su proprio un’inquietudine. Lei ci diceva sempre: «Papà, mamma, non mi bastano neanche gli amici. Non bastano neanche le cose belle che pur ho vissuto durante la giornata a far fuori questa inquietudine». Meno male che c’è qualcuno che è padre sul serio, molto più di me. Un giorno incrocia un amico sacerdote e gli parla di questo. La risposta che le ha dato è impressionante, perché noi vorremmo sempre risolvere l’inquietudine, il disagio, mascherarla, ridurla, annacquarla. Mentre lui le ha detto: «Arianna, ti invidio, perché anche io sono come te. Mi auguro che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita, perché essa è segno di un cuore grandemente ferito. Noi viviamo in un mondo che non può sopportare un cuore grandemente ferito e quindi tenderà sempre a ridurre questa ferita, a farla diventare piccola, ma con una ferita piccola ti accontenterai di risposte piccole, mentre con una ferita grande avrai bisogno della risposta grande, cioè di Gesù. Adesso sta a te decidere come vuoi vivere».

Una ferita è come una finestra: più è grande, più è aperta e più dalla finestra entrano luce e aria; più la restringi, se non addirittura la chiudi, e più non entra né aria né luce. È un esempio che ha fatto anche il Santo Padre: «Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno» (Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013). Che cosa volete? Vivere tutta la vita in una stanza chiusa?

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

LA PAURA DEL LIMITE

Spesse volte abbiamo paura del limite. Il limite, la nostra umanità, il nostro disagio. E qui il professionista di chi non ha paura del limite si chiama Lele, sempre mio figlio. Lui è un tipo esuberante. Quando ha un rapporto con qualcuno, normalmente succedono questi tre fatti in serie: tentativo di metterti un dito in un occhio, dopo di che un pizzicotto e altro. Comunque questi due gesti bastano. Il suo approccio all’altro è sempre così. Dopo di che – dal momento che non è scemo – si accorge che l’altro lo guarda male. Ma è normale, la vita è fatta così. Lo guarda male, allora lui gira la testa verso i genitori… che lo guardano peggio! E cosa succede, a un certo punto? Che dentro questo sguardo brutto, sia di chi è stato colpito che dei genitori, tenta di abbracciare il mal capitato. E fin quando il mal capitato non lo riabbraccia, lui insiste. Semplice. L’istante dopo, di nuovo dito in un occhio, pizzicotto e via. Immaginate ventiquattro ore, o dodici che siano, per trentasei anni così. Del suo limite il Lele se ne frega. Il suo limite gli serve soltanto per essere abbracciato. Per me questa cosa è bellissima.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

IN SILENZIO A GUARDARE LA SUA LIBERTÀ 

Si intuisce che quando uno corre ha un passo per cui si gode la vita mentre tu in quel momento vedi tutto nero e non ti godi la vita, ti dà un po’ fastidio che lui o lei si goda la vita. Nel tempo Angela e io siamo arrivati a capire una cosa: prima era tutto un «fermati, rallenta, scendi un po’ al mio livello!»; e così ci si rovina tutti e due. Quando tu dici: «Fermati!» e l’altro si ferma, chi di solito arranca riesce a convincere l’altro che è quasi più giusto arrancare che correre. Invece arrivi al punto in cui dici: «Caspita, sta correndo. Che bello che corre!». Che bello che corre, perché la volta dopo puoi essere tu a correre. E quando tu arrivi a dire: «Che bello che corri!» scatta una cosa molto semplice: che quando capita a te di correre ti volti indietro e dici: «Corri anche tu», non: «Mi fermo». E questo è un amore che sorregge. Correre verso dove? Che cos’è questo correre? Correre a casa perché c’è Gesù che ti aspetta, salire sul sicomoro come Zaccheo e correre incontro a Gesù. Fra due persone si intuisce quando uno sta correndo e l’altro no. Si intuisce. Si capisce.

            «Che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita».

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

AMARE LA DRAMMATICITÀ DI UN CAMMINO – La questione della libertà, ossia la strada da percorrere

La questione della libertà, ossia la strada da percorrere

 

Che certezza devo avere io? Che certezza devo avere non delle mie capacità e di ciò che Dio compirà? È come quando a mia figlia Arianna è morto il fidanzato. Il padre al mattino mi telefona dicendomi: «Enrico, è morto Giovanni. Devi andare a dirlo all’Arianna». Non riuscivo a entrare nella stanza dell’Arianna per dirle quello che era successo. Non ce la facevo. Poi mi è venuto su un pensiero semplicissimo: «Enrico, ma tu ti ritieni più intelligente di Cristo che ha creato l’Arianna, pensi veramente di sapere tu meglio di Cristo di che cosa lei abbia bisogno per diventare una donna?». Solo questo pensiero mi ha permesso di aprire la porta e di dire all’Arianna quello che dovevo. Quando non sai che risposte dare dal momento, che nel 99% dei casi io risposte non ne so dare; oppure quando tu ti immagini una risposta, pensi che sia quella la cosa giusta da dire, da fare, mi vien su questo pensiero: «Ma tu, Enrico, sei più intelligente di Cristo da sapere di che cosa ha bisogno quella persona?». E perché mi è venuto un pensiero come questo? Per l’appartenenza a una compagnia come la nostra, con un figlio disabile che adagio adagio mi ha educato e ha modificato un po’ il mio cervello, la mia mentalità, una compagnia che mi aiuta a mettere dentro le cose anche il fattore ultimo che sta all’origine di tutto: il Mistero, un Mistero incontrato, un Mistero che si è fatto compagnia. Questa è diventata per me una cosa imprescindibile.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

OCCHI COLMI DI BELLEZZA – 20 Settembre 2017

Spesse volte noi abbiamo fretta nella vita.

È come se il tempo fosse contro di noi. Invece è paradossale vedere come il tempo ci è dato per lasciare emergere qualcosa di bello anche da una realtà così dura e faticosa. In fondo in fondo era questo il desiderio che avevo: che da una realtà che mi sembrava così difficile, così complessa, quasi impossibile, potesse venire fuori una bellezza. L’ho desiderato soprattutto in quei quattro anni in cui la vita è stata veramente dura, veramente faticosa, quasi al limite dell’impossibile. Quattro anni in cui, più procedeva il tempo e più mi mancava l’aria, più respiravo con affanno, con fatica; quattro anni in cui sembrava che tardasse ad arrivare la risposta al desiderio di bellezza che qualcuno mi aveva messo nel cuore.

Che cosa deve capitare perché́ una realtà così dura possa incominciare a parlare, a far venire fuori qualcosa che ti aspetti, ma che non sai? Occorre che accada una cosa semplicissima, quella che è capitata a me una sera, dopo quei primi anni così duri: eravamo a tavola, io davo da mangiare a Daniele, mentre Angela, seduta davanti a me, dava da mangiare a Paolo; quella sera – di sere come quella ce n’erano state tante in quattro anni, ma quella sera fu diversa −, alzando gli occhi ho incrociato quelli di mia moglie e li ho visti lieti, ho visto due occhi che guardavano la realtà di quei due figli come io non ero capace di guardare. Anch’io guardavo quei due figli, ma la realtà non mi parlava, mi era come nemica. Lei, invece, guardava quei due figli ed era lieta. Immediatamente – come diceva ieri don Eugenio, dopo mezz’ora dall’incontro con Gesù a casa sua, Zaccheo ha deciso di restituire quattro volte tanto quello che aveva rubato −, in quell’istante, dentro quell’istante, è successa una cosa semplicissima: mi è venuta su un’invidia per quei due occhi di mia moglie e un desiderio di averli anch’io. E subito dopo mi è venuta su una domanda grande come una casa, la grande domanda: «Ma cosa vede lei che io non vedo? Eppure guardo anch’io, ma lei cosa vede che io non vedo?».

Quello è stato l’istante più decisivo della mia vita, perché da quel momento ciò che prima era un peso, una fatica, è diventato un’avventura. Ma non un’avventura per cambiare la realtà, non uno sforzo per modificarla, non uno sforzo per eliminare il limite dei miei figli; no, no. È diventata un’avventura per cercare di capire chi era in grado di dare uno sguardo così a mia moglie (Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017).

UNO SGUARDO LIETO IN UN “CAMPO DI GIOCO DIFFICILE”– 19 settembre 2017

La realtà che ognuno di noi deve vivere è la cosa più bella e più grande che abbiamo, anche se spesso la realtà non è come la pensiamo o come ce la immaginiamo noi. La vita è un po’ come un campo da gioco: tutti vorrebbero giocare su un tappeto erboso perfetto, perché pensiamo che così si possa giocare meglio. Non dico che ci si possa divertire di più, ma sicuramente si può giocare meglio. Di solito, però, la realtà è un campo da gioco pieno di sassi e dove di erba ce n’è poca. E allora si corre subito un rischio – almeno io l’ho corso –, un rischio alimentato magari dagli amici: «Oh, cambiamo il campo da gioco!», come dire: se possiamo, cerchiamo di modificarla un po’, questa realtà.

Quando sono nati i miei due figli, Paolo e Lele che oggi hanno trentasei anni, entrambi con un handicap grave, il campo da gioco mi è apparso subito non propriamente un tappeto erboso. Però c’è stata una cosa che mi ha colpito e che ricordo molto bene: pur dentro la difficoltà di quel momento, io non volevo cambiare questo campo da gioco, ma volevo vedere come se la cavava, come se la sarebbe cavata chi mi aveva dato quel terreno particolare, quei due figli, come mi avrebbe permesso di vivere e come avrebbe risposto a tutto quello che il mio cuore desiderava, che era la felicità.

Quando il campo da gioco si fa un po’ pesante, quando la realtà diventa faticosa e ti sembra nemica, c’è un aspetto che nella mia vita non ho mai perso di vista: devi dare credito alla tua umanità, cioè a come tu reagisci. Anche una reazione, anche una delusione, anche un’inquietudine, tutto quello che emerge in te quando la realtà è così difficile, tutto questo serve. Non si capisce subito che serve, però bisogna cedere anche a questo non capire subito, perché serve (Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017).

 

“NON LASCIATEVI RUBARE LA SPERANZA” – 18 Settembre 2017

Angela e Enrico Craighero: la possibilità di una vita lieta non perché sgombra da dolori e fatiche ma perché interamente spesa per domandare il significato di tutto, saldamente ancorati a una speranza certa.

 

La loro vita è stata significativamente provata dalla nascita, trentasei anni fa, di due gemelli, gravemente disabili che hanno richiesto da subito un accudimento totale che continua ancora oggi. Nei primi anni Enrico ha avvertito maggiormente la ferita per la sua speranza di paternità in qualche modo disattesa dalla dura realtà con cui lui e Angela dovevano fare i conti.

Un giorno, però, mentre imboccavano i figli come al solito, lui si è scoperto affascinato e commosso dal modo con cui sua moglie guardava i due bambini e ha intuito che in quello sguardo di accoglienza gratuita e assoluta c’era il nuovo inizio per lui. Naturalmente quell’intuizione non ha tolto nulla alla sua fatica personale ma, come ci hanno testimoniato entrambi, ha tenuto viva la domanda nel tempo e gli ha permesso di cogliere i tanti segni che sono stati una risposta anche alle loro legittime domande, come ad esempio “chi si occuperà dei nostri figli quando non ci saremo più?”.

Angela ha raccontato di un incontro avvenuto con una famiglia che aveva accolto in adozione un bambino affetto da una grave disabilità e che aveva le stesse esigenze di cura dei suoi figli. In quella testimonianza non cercata ma donata, Angela ha capito ciò che un caro amico sacerdote le aveva provocatoriamente detto tempo prima: “quando non ci sarai più, Dio troverà una mamma migliore di te per loro”.

Il miracolo della vocazione all’accoglienza che rende possibile ad una coppia di amare senza riserve un figlio non biologico e segnato anche da gravi handicap è l’incarnazione della promessa di Dio “anche se ci fosse una donna che si dimenticasse del suo bambino, io non ti dimenticherò mai”.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

VOLTI E OCCHI DI FUTURO – 17 settembre 2017

I due sposi sono radicati nel più profondo del mistero della Chiesa, dentro alla tradizione della Chiesa, ossia nella vita della Chiesa, nella sua fede e quindi nel suo modo di vedere e interpretare gli avvenimenti della vita. La vita della Chiesa e il suo celebrare il Signore Gesù nella liturgia della Chiesa vengono radicati dentro la tradizione della Chiesa.

Attenzione: i genitori vengono resi capaci di trasmettere ai loro figli questa tradizione della Chiesa e solo loro sono capaci di fare questo. Come c’è un sacramento che abilita alcuni cristiani a celebrare il sacramento dell’Eucarestia, a rendere cioè presente Cristo nella Sua Chiesa, c’è un sacramento che abilita, rende capace l’uomo e la donna di trasmettere la tradizione della Chiesa, la vita della Chiesa. (…)

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

 

Abbiamo pensato, a questo punto, di lasciare questa riflessione sul matrimonio per una immagine che meglio di tante parole ci aiuta a capire il senso della per testimonianza del cardinale Carlo Caffarra. È un’immagine che ci viene dal recente viaggio di Papa Francesco. Lasciando la Colombia, in aereo, così commentava con i giornalisti:

«Quello che più mi ha colpito era la folla lungo le strade, i papà e le mamme che alzavano i loro bambini per farli vedere al Papa perché il Papa li benedicesse. Come dicendo: “Questo è il mio tesoro. Questa è la mia speranza. Questo è il mio futuro. Io ci credo”. Questo mi ha colpito: la tenerezza, gli occhi di quei papà e di quelle mamme. Bellissimi, bellissimi. Questo è un simbolo, un simbolo di speranza, di futuro. Un popolo capace di fare bambini e poi farli vedere così, come dicendo “questo è il mio tesoro”, è un popolo che ha speranza e ha futuro».

 

Un popolo che culla fiero il tesoro dei suoi figli ha già passato il crinale dell’odio e della morte. Un popolo così, ha detto il Papa con quegli occhi nella memoria, ha già speranza, ha già futuro.

 

 

LA POTENZA DI DIO CHE OPERA – 16 settembre 2017

Non c’è infedeltà, non c’è miseria, non c’è litigata che sia più forte di questo evento sacramentale che è accaduto. Non li può più distruggere.

Una signora bolognese che aveva perso da poco il marito mi diceva che negli ultimi giorni di vita il marito le chiese di lasciargli la fede matrimoniale nella cassa. Lei non capiva perché, nessuno lo aveva mai fatto. La fede matrimoniale dell’uno la porta al dito l’altro che è rimasto vivente. Lui rispose: «Io voglio che anche tutti gli angeli sappiano che io sono stato tuo marito». Il commento di questa vedova fu: «Eminenza, mi creda, questo è il più bel complimento che un uomo possa fare a una donna». La potenza di Cristo che opera!

Naturalmente esige che sia trasfigurato anche l’amore coniugale, che sia immesso dentro a questo vincolo che è simbolo reale del rapporto Cristo Chiesa. Infatti il grande dono che il sacramento fa e continua a fare è il dono della carità coniugale. La carità coniugale non è semplicemente l’amore fra un uomo e una donna ma è questo stesso amore che viene per così dire trasfigurato, elevato ma non distrutto. Non è semplicemente l’eros fra l’uomo e la donna, ma è l’eros che non viene distrutto, perché viene trasfigurato, integrato dentro un modo nuovo di amarsi.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

COSA FARE? – 15 settembre 2017

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? La domanda presuppone una certezza. La enuncio e poi ritorno alla domanda. In una condizione come la nostra non basta più l’esercizio delle virtù individuali degli sposi, non basta più la semplice testimonianza di una vita retta. Non illudiamoci, questo non basta ma è necessario introdurci, reintrodurci dentro a questa condizione proponendo e realizzando qualcosa di nuovo, di diverso. Questa premessa non vale solo per il matrimonio, in fondo è una visione della vita cristiana.

In questa situazione lo sposo e la sposa cristiana cosa dicono e cosa propongono?

Il matrimonio non lo ha inventato Gesù Cristo come per esempio l’Eucarestia, uomini e donne si sposavano anche prima di Gesù Cristo, e la Chiesa ha sempre avuto un grande rispetto del matrimonio naturale e lo ha sempre reso possibile.

Il matrimonio cristiano quindi non deve essere inteso come qualcosa che si aggiunge, ma come la trasformazione: il matrimonio cristiano è un sacramento. La grande parola, diciamo pure il grande dono che il cristianesimo fa all’uomo e alla donna che si sposano, è il sacramento del matrimonio, la cui sacramentalità non è un francobollo che si attacca ad una busta che è il matrimonio naturale: avendo in sé la presenza operante di Cristo, il sacramento consiste non solo nel legare reciprocamente l’uno all’altra ma la presenza di Cristo fa sì che questo vincolo sia simbolo reale della appartenenza alla Chiesa. Ne deriva quindi l’indissolubità del matrimonio. Non perché quindi gli sposi promettono di essere fedeli e i galantuomini mantengono le promesse. Neppure per una questione morale questione ma è un fatto soprannaturale perché nel loro reciproco legarsi uno all’altra si legano a Cristo e alla Chiesa e viceversa.       

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

PATTO D’AMORE TRA UN UOMO E UNA DONNA (Codice di diritto Canonico, 1055, §1) – 14 Settembre 2017

Decostruito vuol dire che ci sono tutti i pezzi ma il loro significato non è più univoco e la definizione del matrimonio è lasciata agli organismi del potere. Ho avuto la netta impressione di cosa sta accadendo tempo fa.  Ero al mare, e in una casa dove c’erano nonni con i bambini, famiglie, eccetera. Un bimbo era diventato mio grande amico, mi aspettava, voleva parlare con me. Ha sei anni ed era lì con i nonni. Un pomeriggio eravamo noi due, i nonni erano ad una certa distanza, mi dice: «Lo sai che il mio amico ha due mamme?». «Ah sì?» ho detto io. «Io però ne ho una sola, e secondo me è meglio averne una sola che due. E tu pensi che sia meglio averne una o due?» ha continuato il bambino. «Assolutamente è meglio averne una» ho detto io. «Ah meno male» dice il bambino come dire meno male che mi dai ragione.

Incredibile, un bimbo di sei anni che già si pone il problema se è possibile o no, se è meglio o no avere due mamme anziché una. Questa è la situazione del matrimonio. Legata a questa situazione c’è la condizione in cui si trova l’educazione, che posso spiegare in questi termini.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

SERVE CORAGGIO PER SPOSARSI (Papa Francesco, 6.5.2015) – 13 Settembre 2017

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? Il punto riguarda la condizione in cui oggi versa l’istituto matrimoniale, non il sacramento del matrimonio, l’istituto matrimoniale e l’emergenza educativa, o se volete il rapporto educativo intergenerazionale.

La prima questione nell’affrontare questo punto è la condizione generale. Se io voglio disfarmi di un edificio ho due possibilità, la prima: metto una mina e lo distruggo; la seconda possibilità è che lo smonto pezzo per pezzo. Il risultato di questi due processi è molto diverso, perché nel primo caso mi trovo solo con delle macerie, nel secondo caso mi trovo con tutti i pezzi, ma non c’è più l’edificio. Ciò che è accaduto all’istituto matrimoniale è la seconda cosa. L’istituto matrimoniale è stato smontato pezzo per pezzo. Abbiamo ancora tutti i mattoni che componevano questo edificio, ma non abbiamo più l’edificio. È stato un processo plurisecolare, non è cominciato ieri sera.
Un processo plurisecolare composto da vari processi, che hanno costituito questo processo decostruttivo. Infatti noi abbiamo tutti i pezzi. Si parla ancora di maternità, ma a questo punto uno si chiede chi è la madre, in cosa consiste la maternità. Domanda a cui i giuristi romani si sarebbero messi a ridere.
La solita espressione che chi studia giurisprudenza conosce bene è “mater semper certa” – la madre è sempre certa –, oggi non è più possibile. È madre chi mette gli ovuli? È madre chi affitta l’utero? È madre chi prende poi il bambino?
Vedete questo è un pezzo fondamentale dell’istituto matrimoniale, che esiste ancora ma la sua definizione non è più univoca. La categoria della coniugalità è sempre stata una evidenza originaria. La coniugalità era una particolare correlazione fra uomo e donna. Oggi non è più così. Si qualifica come coniugale anche la correlazione fra due uomini o due donne e le precisazioni potrebbero continuare.

Arrivati a questo punto, e questa è una cosa gravissima, la più grave, di cui non dobbiamo mai perdere consapevolezza, non per scoraggiarci ma per sapere come stanno le cose, a questo punto la definizione dell’istituto matrimoniale è demolita, non si sa più cosa è il matrimonio e quale via può percorrere questo uomo che ha demolito il palazzo. Accade che ci si rivolga al potere perché ci dica cosa è il matrimonio e, almeno nei paesi democratici, il potere agisce attraverso il criterio della maggioranza e quindi è la maggioranza che decide che cosa sia il matrimonio. Questa è la situazione, cioè la condizione di un istituto, quello matrimoniale, decostruito.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)