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UNO SGUARDO LIETO IN UN “CAMPO DI GIOCO DIFFICILE”– 19 settembre 2017

La realtà che ognuno di noi deve vivere è la cosa più bella e più grande che abbiamo, anche se spesso la realtà non è come la pensiamo o come ce la immaginiamo noi. La vita è un po’ come un campo da gioco: tutti vorrebbero giocare su un tappeto erboso perfetto, perché pensiamo che così si possa giocare meglio. Non dico che ci si possa divertire di più, ma sicuramente si può giocare meglio. Di solito, però, la realtà è un campo da gioco pieno di sassi e dove di erba ce n’è poca. E allora si corre subito un rischio – almeno io l’ho corso –, un rischio alimentato magari dagli amici: «Oh, cambiamo il campo da gioco!», come dire: se possiamo, cerchiamo di modificarla un po’, questa realtà.

Quando sono nati i miei due figli, Paolo e Lele che oggi hanno trentasei anni, entrambi con un handicap grave, il campo da gioco mi è apparso subito non propriamente un tappeto erboso. Però c’è stata una cosa che mi ha colpito e che ricordo molto bene: pur dentro la difficoltà di quel momento, io non volevo cambiare questo campo da gioco, ma volevo vedere come se la cavava, come se la sarebbe cavata chi mi aveva dato quel terreno particolare, quei due figli, come mi avrebbe permesso di vivere e come avrebbe risposto a tutto quello che il mio cuore desiderava, che era la felicità.

Quando il campo da gioco si fa un po’ pesante, quando la realtà diventa faticosa e ti sembra nemica, c’è un aspetto che nella mia vita non ho mai perso di vista: devi dare credito alla tua umanità, cioè a come tu reagisci. Anche una reazione, anche una delusione, anche un’inquietudine, tutto quello che emerge in te quando la realtà è così difficile, tutto questo serve. Non si capisce subito che serve, però bisogna cedere anche a questo non capire subito, perché serve (Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017).

 

“NON LASCIATEVI RUBARE LA SPERANZA” – 18 Settembre 2017

Angela e Enrico Craighero: la possibilità di una vita lieta non perché sgombra da dolori e fatiche ma perché interamente spesa per domandare il significato di tutto, saldamente ancorati a una speranza certa.

 

La loro vita è stata significativamente provata dalla nascita, trentasei anni fa, di due gemelli, gravemente disabili che hanno richiesto da subito un accudimento totale che continua ancora oggi. Nei primi anni Enrico ha avvertito maggiormente la ferita per la sua speranza di paternità in qualche modo disattesa dalla dura realtà con cui lui e Angela dovevano fare i conti.

Un giorno, però, mentre imboccavano i figli come al solito, lui si è scoperto affascinato e commosso dal modo con cui sua moglie guardava i due bambini e ha intuito che in quello sguardo di accoglienza gratuita e assoluta c’era il nuovo inizio per lui. Naturalmente quell’intuizione non ha tolto nulla alla sua fatica personale ma, come ci hanno testimoniato entrambi, ha tenuto viva la domanda nel tempo e gli ha permesso di cogliere i tanti segni che sono stati una risposta anche alle loro legittime domande, come ad esempio “chi si occuperà dei nostri figli quando non ci saremo più?”.

Angela ha raccontato di un incontro avvenuto con una famiglia che aveva accolto in adozione un bambino affetto da una grave disabilità e che aveva le stesse esigenze di cura dei suoi figli. In quella testimonianza non cercata ma donata, Angela ha capito ciò che un caro amico sacerdote le aveva provocatoriamente detto tempo prima: “quando non ci sarai più, Dio troverà una mamma migliore di te per loro”.

Il miracolo della vocazione all’accoglienza che rende possibile ad una coppia di amare senza riserve un figlio non biologico e segnato anche da gravi handicap è l’incarnazione della promessa di Dio “anche se ci fosse una donna che si dimenticasse del suo bambino, io non ti dimenticherò mai”.

(Incontro Nazionale delle famiglie per l’accoglienza – Padova, 2017)

VOLTI E OCCHI DI FUTURO – 17 settembre 2017

I due sposi sono radicati nel più profondo del mistero della Chiesa, dentro alla tradizione della Chiesa, ossia nella vita della Chiesa, nella sua fede e quindi nel suo modo di vedere e interpretare gli avvenimenti della vita. La vita della Chiesa e il suo celebrare il Signore Gesù nella liturgia della Chiesa vengono radicati dentro la tradizione della Chiesa.

Attenzione: i genitori vengono resi capaci di trasmettere ai loro figli questa tradizione della Chiesa e solo loro sono capaci di fare questo. Come c’è un sacramento che abilita alcuni cristiani a celebrare il sacramento dell’Eucarestia, a rendere cioè presente Cristo nella Sua Chiesa, c’è un sacramento che abilita, rende capace l’uomo e la donna di trasmettere la tradizione della Chiesa, la vita della Chiesa. (…)

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

 

Abbiamo pensato, a questo punto, di lasciare questa riflessione sul matrimonio per una immagine che meglio di tante parole ci aiuta a capire il senso della per testimonianza del cardinale Carlo Caffarra. È un’immagine che ci viene dal recente viaggio di Papa Francesco. Lasciando la Colombia, in aereo, così commentava con i giornalisti:

«Quello che più mi ha colpito era la folla lungo le strade, i papà e le mamme che alzavano i loro bambini per farli vedere al Papa perché il Papa li benedicesse. Come dicendo: “Questo è il mio tesoro. Questa è la mia speranza. Questo è il mio futuro. Io ci credo”. Questo mi ha colpito: la tenerezza, gli occhi di quei papà e di quelle mamme. Bellissimi, bellissimi. Questo è un simbolo, un simbolo di speranza, di futuro. Un popolo capace di fare bambini e poi farli vedere così, come dicendo “questo è il mio tesoro”, è un popolo che ha speranza e ha futuro».

 

Un popolo che culla fiero il tesoro dei suoi figli ha già passato il crinale dell’odio e della morte. Un popolo così, ha detto il Papa con quegli occhi nella memoria, ha già speranza, ha già futuro.

 

 

LA POTENZA DI DIO CHE OPERA – 16 settembre 2017

Non c’è infedeltà, non c’è miseria, non c’è litigata che sia più forte di questo evento sacramentale che è accaduto. Non li può più distruggere.

Una signora bolognese che aveva perso da poco il marito mi diceva che negli ultimi giorni di vita il marito le chiese di lasciargli la fede matrimoniale nella cassa. Lei non capiva perché, nessuno lo aveva mai fatto. La fede matrimoniale dell’uno la porta al dito l’altro che è rimasto vivente. Lui rispose: «Io voglio che anche tutti gli angeli sappiano che io sono stato tuo marito». Il commento di questa vedova fu: «Eminenza, mi creda, questo è il più bel complimento che un uomo possa fare a una donna». La potenza di Cristo che opera!

Naturalmente esige che sia trasfigurato anche l’amore coniugale, che sia immesso dentro a questo vincolo che è simbolo reale del rapporto Cristo Chiesa. Infatti il grande dono che il sacramento fa e continua a fare è il dono della carità coniugale. La carità coniugale non è semplicemente l’amore fra un uomo e una donna ma è questo stesso amore che viene per così dire trasfigurato, elevato ma non distrutto. Non è semplicemente l’eros fra l’uomo e la donna, ma è l’eros che non viene distrutto, perché viene trasfigurato, integrato dentro un modo nuovo di amarsi.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

COSA FARE? – 15 settembre 2017

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? La domanda presuppone una certezza. La enuncio e poi ritorno alla domanda. In una condizione come la nostra non basta più l’esercizio delle virtù individuali degli sposi, non basta più la semplice testimonianza di una vita retta. Non illudiamoci, questo non basta ma è necessario introdurci, reintrodurci dentro a questa condizione proponendo e realizzando qualcosa di nuovo, di diverso. Questa premessa non vale solo per il matrimonio, in fondo è una visione della vita cristiana.

In questa situazione lo sposo e la sposa cristiana cosa dicono e cosa propongono?

Il matrimonio non lo ha inventato Gesù Cristo come per esempio l’Eucarestia, uomini e donne si sposavano anche prima di Gesù Cristo, e la Chiesa ha sempre avuto un grande rispetto del matrimonio naturale e lo ha sempre reso possibile.

Il matrimonio cristiano quindi non deve essere inteso come qualcosa che si aggiunge, ma come la trasformazione: il matrimonio cristiano è un sacramento. La grande parola, diciamo pure il grande dono che il cristianesimo fa all’uomo e alla donna che si sposano, è il sacramento del matrimonio, la cui sacramentalità non è un francobollo che si attacca ad una busta che è il matrimonio naturale: avendo in sé la presenza operante di Cristo, il sacramento consiste non solo nel legare reciprocamente l’uno all’altra ma la presenza di Cristo fa sì che questo vincolo sia simbolo reale della appartenenza alla Chiesa. Ne deriva quindi l’indissolubità del matrimonio. Non perché quindi gli sposi promettono di essere fedeli e i galantuomini mantengono le promesse. Neppure per una questione morale questione ma è un fatto soprannaturale perché nel loro reciproco legarsi uno all’altra si legano a Cristo e alla Chiesa e viceversa.       

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

PATTO D’AMORE TRA UN UOMO E UNA DONNA (Codice di diritto Canonico, 1055, §1) – 14 Settembre 2017

Decostruito vuol dire che ci sono tutti i pezzi ma il loro significato non è più univoco e la definizione del matrimonio è lasciata agli organismi del potere. Ho avuto la netta impressione di cosa sta accadendo tempo fa.  Ero al mare, e in una casa dove c’erano nonni con i bambini, famiglie, eccetera. Un bimbo era diventato mio grande amico, mi aspettava, voleva parlare con me. Ha sei anni ed era lì con i nonni. Un pomeriggio eravamo noi due, i nonni erano ad una certa distanza, mi dice: «Lo sai che il mio amico ha due mamme?». «Ah sì?» ho detto io. «Io però ne ho una sola, e secondo me è meglio averne una sola che due. E tu pensi che sia meglio averne una o due?» ha continuato il bambino. «Assolutamente è meglio averne una» ho detto io. «Ah meno male» dice il bambino come dire meno male che mi dai ragione.

Incredibile, un bimbo di sei anni che già si pone il problema se è possibile o no, se è meglio o no avere due mamme anziché una. Questa è la situazione del matrimonio. Legata a questa situazione c’è la condizione in cui si trova l’educazione, che posso spiegare in questi termini.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

SERVE CORAGGIO PER SPOSARSI (Papa Francesco, 6.5.2015) – 13 Settembre 2017

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? Il punto riguarda la condizione in cui oggi versa l’istituto matrimoniale, non il sacramento del matrimonio, l’istituto matrimoniale e l’emergenza educativa, o se volete il rapporto educativo intergenerazionale.

La prima questione nell’affrontare questo punto è la condizione generale. Se io voglio disfarmi di un edificio ho due possibilità, la prima: metto una mina e lo distruggo; la seconda possibilità è che lo smonto pezzo per pezzo. Il risultato di questi due processi è molto diverso, perché nel primo caso mi trovo solo con delle macerie, nel secondo caso mi trovo con tutti i pezzi, ma non c’è più l’edificio. Ciò che è accaduto all’istituto matrimoniale è la seconda cosa. L’istituto matrimoniale è stato smontato pezzo per pezzo. Abbiamo ancora tutti i mattoni che componevano questo edificio, ma non abbiamo più l’edificio. È stato un processo plurisecolare, non è cominciato ieri sera.
Un processo plurisecolare composto da vari processi, che hanno costituito questo processo decostruttivo. Infatti noi abbiamo tutti i pezzi. Si parla ancora di maternità, ma a questo punto uno si chiede chi è la madre, in cosa consiste la maternità. Domanda a cui i giuristi romani si sarebbero messi a ridere.
La solita espressione che chi studia giurisprudenza conosce bene è “mater semper certa” – la madre è sempre certa –, oggi non è più possibile. È madre chi mette gli ovuli? È madre chi affitta l’utero? È madre chi prende poi il bambino?
Vedete questo è un pezzo fondamentale dell’istituto matrimoniale, che esiste ancora ma la sua definizione non è più univoca. La categoria della coniugalità è sempre stata una evidenza originaria. La coniugalità era una particolare correlazione fra uomo e donna. Oggi non è più così. Si qualifica come coniugale anche la correlazione fra due uomini o due donne e le precisazioni potrebbero continuare.

Arrivati a questo punto, e questa è una cosa gravissima, la più grave, di cui non dobbiamo mai perdere consapevolezza, non per scoraggiarci ma per sapere come stanno le cose, a questo punto la definizione dell’istituto matrimoniale è demolita, non si sa più cosa è il matrimonio e quale via può percorrere questo uomo che ha demolito il palazzo. Accade che ci si rivolga al potere perché ci dica cosa è il matrimonio e, almeno nei paesi democratici, il potere agisce attraverso il criterio della maggioranza e quindi è la maggioranza che decide che cosa sia il matrimonio. Questa è la situazione, cioè la condizione di un istituto, quello matrimoniale, decostruito.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

 

EDUCARE (= educare: condurre fuori da…, tirar fuori ciò che sta dentro) -12 Settembre 2017

Questa è l’educazione: se io generazione dei padri non ho nessun progetto da comunicare voi capite che l’educazione diventa impossibile. Si dice: «Io non voglio comunicare nulla, perché quando poi sarà arrivata l’età giusta farà le sue scelte». Questo pensiero genera degli schiavi, siatene certi.

Non può accadere il rapporto educativo fra le generazioni se colui che trasmette non ha l’autorità di poter dire: «Questo che ti trasmetto è il progetto di una vita buona, cioè di una vita che ti può fare felice, che ti può rendere vero e giusto». Questo è il principio di autorità.

Tutto questo che vi ho detto non viene messo in crisi, viene semplicemente distrutto se noi accettiamo il dogma del relativismo, perché a quel punto una proposta vale l’altra, un progetto vale l’altro.

Questa è la condizione, ormai una sorta di afasia, cioè non sapere più parlare, da parte della generazione dei padri nei confronti dei figli, e poi l’oscurarsi di appartenere ad una storia, ad una tradizione nel senso alto del termine come condizione, come terreno in cui la mia umanità può fiorire.

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

L’EMERGENZA EDUCATIVA – 11 Settembre 2017

Nella condizione in cui ci troviamo l’atto educativo, l’educare, questa azione dell’educare, non è diventata difficile, è diventata impossibile. Perché è diventata impossibile? Perché è diventata impensabile, cioè è impensabile l’educare, non l’istruire, anche perché l’istruzione alla fine è una processo anche molto impersonale. È diventato impensabile, perché l’educazione essenzialmente consiste nella trasmissione di un progetto di vita che la generazione dei padri compie nei confronti della generazione dei figli, sulla base di una forte autorevolezza che fa dire alla generazione dei padri: «Questo è il progetto vivendo il quale tu vivi una vita buona, bella, giusta».

Per spiegare bene il mio concetto vi ricordo un rito che avviene nella cena pasquale ebraica. Voi sapete che la Pasqua ebraica, diversamente dalla Pasqua cristiana, è una festa esclusivamente familiare. Cioè la Pasqua la si celebra solamente in famiglia. La cena è il momento più grande della celebrazione familiare della Pasqua, la cena pasquale, come ha fatto Gesù con gli apostoli, è regolata da un rito molto molto preciso, che deve essere rigorosamente seguito dal capotavola. Ad un certo momento il più piccolo che è a tavola deve, secondo il rito, chiedere al più anziano, a capotavola: «Ma cos’è questa cena? Ma perché mangiamo solo verdure amare?». Quello a capotavola doveva rispondere così: «Perché eravamo schiavi sotto il faraone, il Signore ha ascoltato le nostre grida, noi siamo stati liberati». Narrava tutta la storia del popolo di Israele non come una serie di eventi che semplicemente bisognava imparare, ma una serie di eventi che ti aiutavano a vivere ora. Se noi riflettiamo un momento su questo rito, qui vediamo proprio in atto quella definizione di azione educativa che vi dicevo prima. Una generazione che, come dice il salmo, narra all’altra le meraviglie del Signore.

Attraverso l’atto educativo il bambino diventa consapevole di appartenere ad una storia, cioè ad un popolo.

Questa consapevolezza di una tradizione vivente che il nonno e i genitori gli stanno trasmettendo è ciò che assicura a lui la vera libertà. Prima erano schiavi!

(Liberamente tratto da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra, con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

DIVENTARE AMICO DEL POVERO – 10 Settembre 2017

         A contatto con la fragilità e con la sofferenza delle persone con disabilità mentale, ricevendo la loro fiducia, sentivo nascere in me sorgenti nuove di tenerezza. Li amavo ed ero felice di stare con loro. Risvegliavano una parte del mio essere che fino a quel momento era stata sottosviluppata, atrofizzata. Mi aprivano un altro mondo, non più un mondo di forza e successo, di potere ed efficienza, ma del cuore, della vulnerabilità e della comunione. Mi conducevano su un cammino di guarigione e di unità interiore.

         Diventare amico del povero è esigente. Ci àncora alla realtà della sofferenza. Impossibile fuggire nelle idee e nei sogni! Il richiamo del povero alla solidarietà ci obbliga a fare scelte, ad approfondire la nostra vita spirituale, a mettere l’amore al centro delle nostre vite e del quotidiano. Ci trasforma.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

LA TRASFORMAZIONE DEL CUORE – 9 Settembre 2017

         Diventare amico di Raphaël e Philippe e vivere un’alleanza con loro, un patto sacro, ha implicato per me un grande cambiamento. Per educazione ero un uomo efficiente e rapido, che prendeva da solo le proprie decisioni. Ero uomo d’azione prima di essere uomo d’ascolto. In marina avevo colleghi, ma non veri amici. Essere amico, significa diventare vulnerabile, lasciare cadere le proprie maschere e le proprie barriere per accogliere l’altro in sé, così come è, con la sua bellezza e i suoi doni, la sua debolezza e le sue ferite interiori. Significa piangere quando piange, ridere quando ride. Avevo creato molte barriere attorno al mio cuore, per proteggere la mia vulnerabilità. All’Arca non si trattava più di “salire” di grado, diventando sempre più efficiente e riconosciuto, ma di “scendere”, di “perdere” il mio tempo nelle relazioni con persone con disabilità mentale, per costruire con loro una comunità, un luogo di comunione e di alleanza.

         Dovevo imparare che cosa significasse amare davvero qualcuno, entrando in comunione con lui. Amare qualcuno è certamente voler fare qualcosa per lui, ma è soprattutto essergli presente per rivelargli la sua bellezza e il suo valore, e aiutarlo ad avere fiducia in se stesso.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

 

UNA SOCIETA’ COMPETITIVA – 8 Settembre 2017

         Le nostre società occidentali – essendo società di consumo che spingono all’individualismo – sono competitive. Fin dalla scuola ai bambini si insegna ad essere i primi e a vincere per poter essere ammirati.
         La competizione ha un aspetto positivo: sviluppa al massimo le energie e le capacità. Spinge a dare il meglio di sé. Ma essa ha anche degli aspetti negativi. Per uno che vince, quanti perdono, si scoraggiano e non riescono a sviluppare le proprie capacità? Incapaci di emergere, cadono sempre più giù nella mancanza di autostima. Coloro che hanno salito la scala della promozione sociale, tendono spesso a disprezzare coloro che non ci sono riusciti.
         Anch’io facevo parte di questo mondo competitivo.
         Poi ho incontrato Raphaël e Philippe in un manicomio vicino a Parigi, dove erano rinchiusi dietro a muri imponenti. Era un luogo lugubre. La prima cosa che ho scoperto vivendo con Raphaël e Philippe è stata la profondità della loro sofferenza. Col tempo ho realizzato come la vita comunitaria tra persone con disabilità mentale e persone venute per condividere la loro vita andasse controcorrente rispetto alla cultura corrente.
         Poco tempo dopo l’inizio dell’Arca, ho scoperto una frase del vangelo di Luca, in cui Gesù dice:

         Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato (Lc 14,12-14).

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

I DUE MONDI DI OGGI – 7 Settembre 2017

   I due mondi che esistevano al tempo di Gesù, esistono anche oggi in tutti i nostri paesi, nei nostri villaggi e nelle nostre città, e in ciascuno dei nostri cuori.

   Il ricco è colui che crede di bastare a se stesso e non riconosce il proprio bisogno di amore e le necessità dell’altro. In ciascuno di noi vive un ricco. Esistono anche i ricchi di beni materiali e culturali, persino di beni spirituali, soddisfatti di se stessi, vivono nel lusso, chiusi nella ricchezza, nel potere e nei privilegi. Hanno abbondanza di quelle cose che però non soddisfano in profondità. Posseggono più del necessario e vogliono possedere sempre di più, intrappolati in un circolo vizioso di insoddisfazione, non riconosciuta, del cuore! Incapaci di comprendere la propria debolezza, disprezzano gli altri, soprattutto quelli che sono diversi o deboli.

   Ed esistono sempre i poveri e gli esclusi, considerati incapaci di inserirsi nella società. Sono i mendicanti, i “senza fissa dimora”, gli immigrati, i disoccupati, le vittime di abuso, i malati di mente, le persone con una disabilità fisica o mentale; sono i vecchi abbandonati. Sono tutti coloro che soffrono di malnutrizione e di fame; sono tutti i rifugiati che fuggono dall’odio e dalla guerra. Tutti costoro sono prigionieri di un’immagine ferita di se stessi.

   Oggi il messaggio di Gesù è lo stesso di sempre: egli è venuto per riunire i figli di Dio dispersi e dare loro la vita in abbondanza. Vuole abolire l’odio, i pregiudizi e le paure che separano le persone e i gruppi, creare in questo mondo diviso luoghi di unità, di riconciliazione e di pace, chiamando i ricchi alla condivisione e i poveri alla speranza.

 

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)

 

 

GESU’ STESSO DIVENTA POVERO – 6 Settembre 2017

   Gesù stesso diventa povero; il Verbo si fa carne, l’Onnipotente diventa un bambino indifeso che risveglia l’amore nei nostri cuori. Le sue parole, il suo modo di essere confondono tutti, soprattutto i potenti, che rifiutano di ascoltarlo; non lo accettano, cercano anche di farlo morire e infine lo consegnano al potere civile, il potere romano. Gesù è condannato a morte e muore nella più totale abiezione: tutti si beffano di lui. Il compassionevole diventa colui che ha bisogno di compassione, il povero. Gesù sovverte l’ordine stabilito: non si tratta più di “fare del bene” ai poveri, ma di scoprire nella relazione con lui e con loro che Dio è nascosto nel povero. Mediante le sue azioni, e la sua vulnerabilità assoluta, Gesù ci rivela che il povero e il debole hanno il potere di guarire e liberare.

(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)