LECTIO DIVINA – 8 Aprile 2018 – Domenica in albis / B

 

       

 

 

        At 4,32-35; Sal 117; 1 Gv 5,1-6; Gv 20,19-31

 

Non è un credulone, Tommaso: come noi, razionali e poco inclini a credere “sulla parola”, vuole toccare con mano tutto, anche Dio. La testimonianza di altri, fossero anche gli amici più fidati, non basta; “Se non vedo…e non metto il mio dito…io non credo” (Gv 20, 25): Tommaso vuole mettere le sue mani sul Mistero, vuole essere sicuro che il Figlio di Dio morto in croce sia tornato dal Regno dei morti per annunciare che la Vita ha trionfato. Il Risorto che, riconosciuto otto giorni prima da Maria Maddalena aveva detto: “Non mi toccare” (Gv 20, 17),  asseconda invece il desiderio di quest’uomo dubbioso che cerca una risposta, che – anche se “otto giorni dopo” (Gv 20, 26), in ritardo sui suoi compagni – non manca all’appuntamento.

 

Commento alle letture

 

La fede cristiana non è intimistica: si nutre, fin dai primi giorni successivi alla Risurrezione di Cristo, di vita comune, come dimostrano i Dodici che, seppur spaventati dopo gli eventi della Passione, si ritrovano comunque insieme (Gv 20, 19).

I primi cristiani descritti negli Atti condividono beni e talenti, mettono in gioco se stessi, la loro libertà, il loro spazio vitale per rendere visibile l’amore di Dio già sulla terra. Non è un sogno ad occhi aperti e non è nemmeno facile: per questo i progetti, la nostra vita con i suoi successi e conflitti, gli alti e i bassi nelle relazioni, vanno messi nelle ferite del corpo del Risorto, nell’acqua purificante del Battesimo e nel suo sangue, l’Eucaristia, cibo di vita e d’amore.

 

I comandi che Dio aveva inciso sulla pietra tremila anni fa, sono scritti ora nel cuore dei suoi figli: con Cristo, Parola di Dio fatta uomo, sono divenuti vita.

Non ci piace la parola “comandamento”: urta la nostra libertà, la nostra indipendenza da qualunque tipo di autorità. Se rileggiamo i Dieci comandamentipensando che sono stati scritti per la nostra felicità e che sono già incisi nella parte più vera e più profonda di noi, da “doveri” antiquati per cattolici osservanti, diventano la via maestra per essere veri uomini e vere donne, capaci di amore, di rispetto, di fedeltà. Il Creatore sa che valiamo più dei nostri istinti e bisogni, la cui soddisfazione immediata e spesso spasmodica ci preclude la strada verso la piena felicità personale e comunitaria.

 

Commento al Vangelo

 

Cristo appare dentro il nostro buio: quando siamo chiusi a chiave nella paura, quando tutto sembra finito, il Figlio di Dio appare da dentro, ferito come noi eppure vivo e vicino. Dentro le sue piaghe possiamo affondare i nostri dubbi (dal sanscrito dvacioè “due”), come Tommaso, detto Didimo che significa “gemello”, “doppio”: doppio perché oscilla tra una fede impetuosa e l’incredulità, fra il desiderio di abbandonarsi a Dio senza condizioni e la pretesa “scientifica” di provare che Cristo crocifisso è vivo.

Dentro le ferite del Risorto Tommaso compie il passaggio da uomo “doppio”, frammentato, a “gemello” di Cristo (cfr. Atti di Tommaso, apocrifo del III secolo), somigliante al suo Signore e suo Dio (Gv 20, 28). È il cammino di tutti i battezzati che nei primi secoli, ricevuto il Sacramento nella notte di Pasqua, otto giorni dopo deponevano la veste bianca – da qui l’uso di chiamare questa domenica in Albis (vestibus) depositis, cioè “deposte le vesti bianche” – simbolo della luce di Cristo di cui il Battesimo ci riveste.  

Lo Spirito che Gesù ha soffiato sugli Apostoli otto giorni prima, raggiunge anche Tommaso e, percorrendo i secoli, raggiunge anche noi e agisce laddove siamo disposti a cedere, a togliere maschere, condizionamenti culturali, laddove siamo realmente nudi e quindi vulnerabili: lì si scatenano in noi forze interiori inaspettate. Nel dolore siamo messi di fronte alla nostra verità, alla “povertà” umana che nel Crocifisso Risorto non è fonte di depressione e sinonimo di “nullità”, ma scoperta della nostra felice dipendenza da Lui. Ciò che possiedo e che, sotto il peso del dolore e del dubbio sembra svanire, mi è dato da Lui e non è solo per me, è per una missione di “per-dono”, di dono totale e compiuto (Gv 20, 23).

 

Commento patristico

 

“Le cicatrici indicavano colui che aveva sanato tutte le ferite degli altri. Non avrebbe potuto il Signore risorgere senza cicatrici? Ma sapeva che nel cuore dei discepoli c’erano delle ferite che le cicatrici conservate nel suo corpo avrebbero sanato”.

(Sant’Agostino, Discorsi 88, 1-2)

 

Commento francescano

 

La “pace” di Gesù (Gv 20, 19), lo Shalomebraico che soffia dal Risorto sugli Apostoli, ha raggiunto anche Francesco d’Assisi che, su indicazione di Cristo stesso, lo scelse come saluto dell’Ordine dei Frati minori (FF 121). Esso è sinonimo di integrità, di salute, di appagamento, di compiutezza; il verbo ebraico corrispondente significa anche “pagare” e “riscattare”: in esso è contenuto, quindi, anche il senso del dono della vita per la salvezza dei fratelli, ad imitazione del Risorto le cui piaghe sono “vere finestre aperte sulle viscere della sua misericordia” (FF 1991).

 

Preghiera finale

 

Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Per il nostro Signore… (v. Colletta, Domenica in Albis – B).

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