Siamo condizionati da una cultura della «emergenza» che detta forme di chiusura e di rifiuto del «diverso».
La tristezza, poi, cresce, quando sentiamo espressioni come queste, magari sul piazzale della chiesa, all’uscita della Messa domenicale: «Io non provo odio per nessuno! Io non sono razzista… ma immigrati e zingari, quelli li dovrebbero cacciar via. Disturbano, scippano, uccidono, vengono a rubarci il lavoro…».
Chi pronuncia queste parole, è chiaro che si è lasciato corrodere dalla paura del diverso, dall’antipatia, dall’aggressività, dall’opposizione, dall’intolleranza. Non è ancora un odio diretto, ma è quella forma più sottile di avversione, che ci mette subito nell’atteggiamento di chi deve difendersi da un nemico.
Nel Libro della Genesi, Giuseppe figlio di Giacobbe è agli occhi dei fratelli un privilegiato, accaparratore d’affetto, d’attenzioni e di preferenze. Il tarlo dell’odio separa sino a far sentire estranei tra loro i fratelli.
Quante mamme, quanti papà a cui, insieme al rispetto, viene negato persino il saluto solo perché hanno teso con particolare vigore la mano al figlio più bisognoso di cure e d’attenzioni! Quanti preti di frontiera vengono criticati dalla gente perché si compromettono troppo nel loro ministero, mentre tutti stanno con la pietra in mano, pronti a scagliarsi contro «i malati di peccato». Preti che hanno sposato lo stile di Dio. E per Dio, l’amore non è mai abbastanza! E ogni uomo è il «preferito». E se è debole, diventa il «privilegiato»!
(GianCarlo M. Bregantini)