LECTIO DIVINA – 15 Ottobre 2017 – XXVIII T.O. / A

 

 

 

 

 

Is 25,6-10a; Sal 22(23); Fil 4,12-14.19-20; Mt 22,1-14

 

 

I brani della Scrittura proposti in questa domenica ci parlano tutti di un banchetto, di sazietà e fame, di un pranzo di nozze. Il significato allegorico è che  Dio celebra le nozze con l’umanità, attraverso il Figlio. Una festa nuziale, momento quindi di comunione e di allegria, è anche il passaggio terapeutico in cui  le  nostre ferite, le  nostre solitudini, vengono risanate per sempre. Per partecipare e accogliere tale gioia del banchetto nuziale dobbiamo essere disposti a subire il momentaneo, leggero strappo del velo che nasconde la ferita dell’anima. Senza paura di portare alla luce il nostro bisogno di amare e di essere amati, accogliamo  l’abito nuziale, la veste bianca, operando con amore e sostenuti da Gesù.

 

 

Commento alle Letture

 

            La prima lettura (Is 25,6-10a) fa parte di un inno di ringraziamento che celebra la vittoria di Dio e parla del banchetto escatologico. Viene rappresentato un grandioso banchetto offerto a tutti i popoli (25,6). Che sia simbolo di felicità eterna, può essere indicato anche dall’annuncio che allora il Signore asciugherà le lacrime su ogni volto. Questa Parola conferma la nostra fiducia in colui che raccoglie le nostre lacrime nel suo otre, conosce le nostre sofferenze e le avvalora se vissute con lui e per lui. Come recita il Salmo: Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me[…]. Davanti a me tu prepari una mensa (22,4a.5a).    Nella seconda lettura (Fil 4,12-14.19-20), il brano della lettera di Paolo rivolta ai Filippesi, l’Apostolo mostra gratitudine per gli aiuti materiali ricevuti da loro. Non avrebbe bisogno in realtà di quegli aiuti, li accetta tuttavia volentieri come espressione dell’affettuoso interessamento dei fedeli nei suoi confronti. Dall’Apostolo allenato alla sazietà e alla fame impariamo la fiducia in colui che gli da forza, nel quale tutto può.

 

Commento al Vangelo


           Il Vangelo di Matteo (22,1-14) ci parla di una festa di nozze: Dio celebra le nozze con l’umanità, attraverso il Figlio. Secondo alcuni il racconto sottintende il problema della convivenza nella comunità cristiana delle origini di giudei convertiti e pagani convertiti. Tanti tra i giudei mantenevano l’usanza antica di non sedersi allo stesso tavolo con un pagano. Ma il Vangelo dice che il padrone ordina di far entrare buoni e cattivi nella sala (Mt 22,10). Nel contesto dell’epoca, i cattivi erano i pagani, quindi anche loro sono invitati a partecipare alla festa. L’invito è gratuito e nessuno lo merita: se è vero che non lo ‘meritano’ i pagani, è pur vero che non lo ‘meritano’ neanche i giudei.

Il brano può essere considerato uno di quelli che più di altri nella Scrittura ci parlano contemporaneamente di tutte e due le parti che costituiscono la relazione tra Dio e l’uomo. La prima parte è quella di Dio: egli ci dona gratuitamente, immeritatamente. La seconda parte spetta a noi, ad ogni singolo uomo. La nostra parte è piccolissima, ma per volontà di Dio imprescindibile: il Signore ci ha creati con una dignità che è garantita dalla libertà che lui stesso ci ha donato. Non ci tratta come marionette, per questo  non fa la nostra parte:  tocca a nessun altro che a noi. Questa piccola parte è il nostro ‘sì’ o il nostro ‘no’ al suo dono: la scelta libera di accogliere o meno la sua grazia. Dio ci invita tutti, cattivi e buoni (22,10). La nostra parte è accogliere l’abito nuziale (che nei banchetti tipicamente era offerto agli invitati all’ingresso della sala del banchetto), lasciarsi rivestire. Scrive S. Gregorio Magno: « Abbiate la fede con l’amore: è questo l’abito nuziale ». E prima di lui l’Apocalisse spiega:  la veste di lino sono le opere giuste dei santi (19,8). Senza questa veste, cioè dove consapevolmente e liberamente si sceglie di stare lontano dal Signore, lui non può asciugare le nostre lacrime.

 

Commento francescano

 

            In una delle lettere indirizzate all’amica e discepola Agnese di Praga, Chiara parla di un adornarsi che può richiamare l’abito nuziale di cui la parabola di Matteo invita a rivestirsi. La Damianita usa una metafora tipicamente medievale parlando di Gesù Cristo come lo specchio al quale guardare per trasformarsi in Lui, per assumere la sua forma: « In esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno, vestita e avvolta di variopinti ornamenti, ornata insieme con i fiori e le vesti di tutte le virtù, come conviene a figlia e sposa amatissima del sommo Re » (4LAg 15-17: FF 2902). Anche Chiara, concordando con la letteratura dei Padri, riconosce nella virtù la manifestazione di quella adesione a Dio che parte dal cuore: « Amandovi a vicenda nella carità di Cristo, dimostrate al di fuori con le opere l’amore che avete nell’intimo » (TestsC 59: FF2847).

 

Orazione finale

            Davvero, o Dio, tu hai preparato per noi una mensa stupenda, una festa meravigliosa. Parteciparvi sarà la nostra eterna gioia. Ti ringraziamo per l’invito che rivolgi proprio a tutti e ti preghiamo perché ciascuno sia pronto con i fianchi cinti, i sandali ai piedi. Sarà la tua Pasqua, o Signore!

Amen.

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