At 5,12-16; sal 117/118; Ap 1,9-11.12-13.17.19; Gv 20,19-31
Si conclude l’ottava di Pasqua, il grande “giorno che ha fatto il Signore”, (salmo responsoriale) per noi e per la nostra salvezza. L’esperienza dei primi testimoni del Risorto ci ricorda che alla gioia della risurrezione non si accede in modo scontato e lineare. L’incontro con il volto del Signore è un grande mistero che si compie nella misura in cui lasciamo entrare dentro le porte chiuse della nostra storia la forza inarrestabile di un amore capace di donarsi anche in mezzo alle tenebre del peccato e della morte: “Non temere! Ero morto ora vivo per sempre” (Ap 1,17-18).
Testo e commento alle letture
Dagli Atti degli Apostoli (At 5, 12-16)
Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
La comunità che si aggrega ai Dodici non è perfetta. E’ insieme peccatrice e giusta. La Chiesa – così è chiamata dopo il peccato di Anania e Saffira (cfr. At 5,11) – è la casta meretrix, sempre esposta al peccato originale di porre fiducia nel ‘dio mammona’ e nella menzogna, causa dei suoi adulteri. Per grazia è però sempre chiamata a vivere uno stile di libertà e responsabilità nei confronti dei fratelli. La Chiesa che, pur con le sue infedeltà, pone Gesù e il suo Spirito al centro, continua a fare e a dire ciò di cui Lui sta al principio: “Chi crede in me, farà le opere che io faccio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12).
Leggiamo nel vangelo di Giovanni che il tralcio unito alla vite porta molto frutto (cfr. Gv 15,1). La vite è un legno all’apparenza secco che però porta in se la linfa: al legno verde è avvenuto ciò che spettava al secco e al secco ciò che è proprio del verde. Se Gesù guariva al tocco della sua veste, il rinnegatore Pietro fa di più: anche il passaggio della sua ombra guarisce. In realtà non è la sua mano a guarire, ma “la mano che il Signore ha stesa” (cfr. At 4,20). Il Masaccio, riproducendo la pericope degli Atti in una sua tela, descrive Pietro che cammina avanti con lo sguardo in alto, la mano destra inerte e l’altra nascosta nel mantello della misericordia: la sua ombra, passando, cerca e ricopre i malati ai bordi della strada.
È quindi il lato oscuro di Pietro a guarire, a dare vita. Egli è ormai rivestito di Cristo, è divenuto portatore di quella luce, sperimentata da lui stesso e che dona a tutti la liberazione.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1,9-11.12-13.17.19)
Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.
Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
Come gli antichi profeti narrano le circostanze in cui Dio li ha chiamati a parlare al popolo in suo nome, così Giovanni racconta come il Cristo vivente gli ha consegnato le rivelazioni contenute nel suo libro: quelle anzitutto relative alle sette chiese d’Asia, poi quelle che riguardano le sorti future del popolo di Dio.
È la terza volta che Giovanni, per autenticare la profezia apocalittica, presenta se stesso: «Io Giovanni son quello che udii e vidi queste cose» (Ap 22,8).
Estraneo com’è dal definire se stesso come apostolo, Giovanni, dovendo rivolgersi a delle chiese perseguitate e parlando loro di future tribolazioni, preferisce chiamarsi loro ‘fratello’ e partecipe fin d’ora della tribolazione che attende ogni credente quaggiù, secondo la parola del Maestro: “Voi avrete tribolazione nel mondo” (Gv 16,33). Giovanni, si trovava infatti relegato nell’isola di Patmos per ordine dell’autorità costituita del tempo. Ma, egli sa che, condividendo le afflizioni vissute dai cristiani, sarà un giorno partecipe del regno, cioè della gloria e del potere regale di Cristo il quale aveva promesso: “Chi vince lo farò sedere presso di me sul mio trono, come anch’io ho vinto e mi sono seduto con il Padre mio sul suo trono”(Ap 3,21) .
Vi è in verità una condizione senza la quale il credente non giunge al regno ed è la tenacia nel portare la propria croce, affrontando con costanza la tribolazione per Gesù e il suo regno.
Giovanni testimonia che in quella situazione di marginalità e privazione “fu preso dallo Spirito nel giorno del Signore”.
Lo Spirito che già aveva animato la sua vita cristiana e lo aveva sorretto nella sua perseveranza, s’impossessa completamente di lui, assorbe, potenzia, trasforma tutte le sue facoltà conoscitive. E Giovanni s’incontra con Cristo: “Udii dietro di me una voce potente, come di tromba. Mi voltai per vedere la voce che parlava con me” (Ap 1,10.12).
In questo incontro che l’apostolo ha con il Signore egli attesta di aver visto: “uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro” (Ap1,13). Questi è Cristo stesso divenuto simile all’uomo in ogni cosa eccetto il peccato, ed anche re e sacerdote, come testimonia la veste talare con fascia d’oro secondo gli usi dell’ Antico Testamento tramandatici da Giuseppe Flavio. Cristo si rivela, infatti, come l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che ci viene incontro prendendoci per mano: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, e ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.
Cristo abbaglia, sconvolge: ci sono certi momenti in cui entra nella vita di ciascuno e sono momenti indimenticabili. Ma è soprattutto l’incontro quotidiano e assiduo con Lui che la Chiesa dovrà sperimentare: egli terrà la sua mano sulla testa di ciascuno e ripeterà momento per momento facendosene lui garante il suo messaggio di fiducia: “Non temere!”.
Testo e commento al Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 20, 19-31)
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Partecipando al Sacrificio Eucaristico nel ‘Giorno del Signore’ noi ascoltiamo ogni volta le parole che Cristo rivolge agli apostoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Inoltre imploriamo il Signore di concederci “unità e pace secondo la sua volontà” e di donare “la pace ai nostri giorni”. Gesù, infatti, dopo la sua risurrezione, ogni volta che apparve ai suoi discepoli augurò loro la pace, sapendo quanto tutti la desiderassero.
“A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati: a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”; così il Cristo risorto, il Veniente ha portato la pace nell’anima inquieta dell’uomo. L’anima creata da Dio ha nostalgia di Lui. La pace con Dio è il fondamento della pace tra gli uomini. Liberato dalla schiavitù del peccato, l’uomo è in pace, ha l’anima in festa.
Giovanni annota che le porte del luogo dove si trovavano i discepoli “per paura dei giudei” erano chiuse. Naturalmente la paura proviene dall’esterno, ma se può entrare nel cuore dell’uomo è unicamente perché vi trova un punto di appoggio. Non serve chiudere le porte. La paura entra nel profondo se si è ricattabili, se qualcosa importa più di Gesù. E questo qualcosa può essere la vita, anche se spesso si ha paura per molto meno. Ora la morte è vinta! “Abbiamo visto il Signore!” esclamano i discepoli, Egli è risorto non c’è più ragione di avere paura.
La pace donata dal Risorto ai ‘suoi’ è quella che Egli aveva promesso nel suo Testamento: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come il mondo la da” (Gv 14,27). La pace che dona Gesù è diversa da quella che dà il mondo; diversa perché dono di Dio. Essa va alla radice là dove l’uomo decide di scegliere tra la menzogna e la verità. È diversa perché sa pagare il prezzo della verità. Diversa perché non promette di eliminare la Croce, né nella vita del cristiano, né nella storia del mondo, ma rende certi della sua vittoria.
Pace e gioia sono al tempo stesso i doni del Risorto e le tracce per riconoscerlo. Ma si deve infrangere l’attaccamento a se stessi. Solo così non si è più ricattabili, perché liberati da ogni paura. La pace e la gioia fioriscono nella libertà e nel dono di sé, due condizioni senza le quali diverrebbe impossibile ogni esperienza della presenza del Risorto.
Commento francescano
Leggiamo dalla Leggenda dei Tre Compagni:
Insisteva perché i fratelli non giudicassero nessuno, e non guardassero con disprezzo quelli che vivono nel lusso e vestono con ricercatezza esagerata e fasto, poiché Dio è il Signore nostro e loro, e ha il potere di chiamarli a sé e di renderli giusti.
Prescriveva anzi che riverissero costoro come fratelli e padroni: fratelli, perché ricevono vita dall’unico Creatore; padroni, perché aiutano i buoni a far penitenza, sovvenendo alle necessità materiali di questi. E aggiungeva: “ Tale dovrebbe essere il comportamento dei frati in mezzo alla gente, che chiunque li ascolti e li veda, sia indotto a glorificare e lodare il Padre celeste ”.
Era suo vivo desiderio che tanto lui quanto i frati abbondassero di opere buone, mediante le quali il Signore viene lodato. E diceva: “ La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori. Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati alla pace, alla bontà, alla concordia dalla vostra mitezza. Questa è la nostra vocazione: curare le ferite, fasciare le fratture, richiamare gli smarriti. Molti, che ci sembrano membra del diavolo, possono un giorno diventare discepoli di Cristo ”.
Commento patristico
Dalle omelie sui Vangeli di san Gregorio Magno papa
La prima domanda che ci pone questo testo evangelico è come potesse essere reale il corpo del Signore dopo la risurrezione, dal momento che aveva il potere di attraversare le porte chiuse. Ma bisogna sapere che le opere di Dio non sarebbero più mirabili se fossero comprensibili dalla nostra mente; né si ha il merito della fede quando la ragione umana fornisce le prove. […..] In modo meraviglioso e incomparabile il nostro Redentore mostrò dopo la risurrezione il suo corpo incorruttibile ma palpabile, affinché l’incorruttibilità invitasse a conquistare il premio, e la possibilità di toccarlo fosse una conferma per la fede.
Si mostrò incorruttibile e palpabile anche per dimostrare che il suo corpo dopo la sua risurrezione aveva la stessa natura, ma una diversa gloria.
Disse ai discepoli: “Pace a voi. Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). Cioè come il Padre, che è Dio, ha mandato me che sono Dio, così anch’io che sono uomo mando voi uomini.
Il Padre mandò il Figlio a incarnarsi per la redenzione del genere umano. E pur mandandolo nel mondo verso la Passione, tuttavia amava quel Figlio che mandò a patire. Anche il Signore mandò nel mondo gli apostoli che si era scelti, non a godere ma come lui a patire. Dunque il Figlio è amato dal Padre, eppure vien mandato a soffrire; così anche i discepoli sono amati dal Signore, e tuttavia sono mandati nel mondo a soffrire.
Orazione finale
Signore risorto, nonostante tanti nostri fallimenti, tu desideri ancora stare insieme a noi, tu credi ancora che proprio la nostra fragilità possa esprimere il mistero della pace e del perdono reciproco. Fa’ che non ci lasciamo isolare da dolorose distanze e incomprensioni, non lasciare che decadiamo dal desiderio di stare insieme a te e fra noi in modo nuovo. Amen.