La Scrittura rapisce il lettore ma non in modo alienante. Lo sottrae dalla quotidianità e gli offre ciò che la quotidianità non sempre gli elargisce. L’esperienza della lettura permette così alla parte mancante del nostro io uno spazio di trascendimento. E qui vorrei ricordare l’esperienza di Niccolò Machiavelli, da lui stesso descritta in una lettera del 10 dicembre del 1513 all’amico Francesco Vettori. In questa lettera, Machiavelli esprime tutta la sua amarezza. Non è riuscito a riportare la repubblica a Firenze. I Medici, con papa Leone X hanno ripreso il potere. E allora, lontano dai frastuoni politici, passa le sue giornate ingaglioffendosi, ovvero si sente un miserabile, un perdente che trascina i suoi giorni stancamente e senza più motivazioni. Ma c’è qualcosa che lo tira fuori da questa miseria:
«Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittorio e in sull’uscio mi spoglio di questa veste quotidiana, piena di fango, e mi metto panni regali e curiali (…)».
Da una parte c’è una vita trascinata, dall’altra Machiavelli scorge una possibilità di salvezza. Insomma, è un miserabile (veste quotidiana) ma anche un re (panni regali e curiali). E prosegue:
«(…) mi metto panni regali e curiali e entro nelle antiche corti degli amichi uomini, dove sono da loro amorevolmente ricevuto, e mi pasco di quel cibo che è solo mio e per il quale io nacqui».
In questo angolo personale, dove Machiavelli si rigenera, incontra gli «antichi uomini», i grandi classici latini e greci, e della loro sapienza si nutre. Quel pane gli appartiene, per quel pane è nato … e non per altro, non per i surrogati, ma per un cibo vero, che nutre e offre senso e riscatto alla vita. E conclude: «E non sento per quattro ore alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte». Credo che anche noi dobbiamo ritrovare lo scriptorium, ovvero quell’angolo, all’interno della nostra giornata, dove rinfrancarci dalle amarezze e dagli errori della nostra vita; quell’angolo del cuore ove ascoltare la Parola di Dio, che per noi è cibo per il quale siamo nati e dove persino l’enigma della morte è rischiarato. (don Sandro Carota osb)