(Is 55,10-11 ; Sal 64; Rm 8,18-23 ; Mt 13,1-23)
La Parola di Dio è come acqua che, sotto forma di pioggia e di neve, feconda la terra, cioè il cuore dell’uomo, ed è seme gettato generosamente dal Padre sulla strada, fra le rocce, fra i rovi e, infine, sulla terra buona che dà frutto: le due immagini presentate dalle Letture odierne invitano noi cristiani, a volte scoraggiati dall’apparente fallimento del Regno di Dio nella storia, ad attenderne il compimento con pazienza e speranza. Con San Paolo crediamo che “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18).
Commento alle letture
La seconda parte del Libro di Isaia (Is 40-55) prepara il ritorno dei Giudei dall’esilio di Babilonia (538 a.C.): il capitolo 55, in particolare, celebra la fedeltà di Dio alle sue promesse di liberazione e di salvezza. Il brano di oggi, attraverso un paragone tratto dal mondo agricolo, sottolinea l’efficacia della Parola di Dio: essa non torna a Lui senza aver “operato” ciò che Egli desidera e senza avere “compiuto” ciò per cui è stata mandata. La Parola di Dio “crea”, fin dal “principio” (Gen 1,1), agisce nella storia dell’uomo: in questo caso, nelle vicissitudini del popolo ebraico che tornerà dall’esilio e riprenderà possesso della propria terra. Il “seme a chi semina” e il “pane a chi mangia” (Is 55,10) sono frutti non di uno sforzo umano, ma dell’intervento del Dio fedele.
Anche nel brano della Lettera ai Romani di San Paolo “tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto” (v. 22), “in ardente aspettativa” (v. 19) della liberazione dalla schiavitù del peccato. Il capitolo 8 mette a tema la vita secondo lo Spirito, contrapposta a quella vissuta sotto il dominio della carne: le “sofferenze del tempo presente” (limiti e fallimenti personali, ingiustizie, persecuzioni, rifiuti) che l’Apostolo delle genti sperimenta in prima persona e con lui i primi cristiani “fino ad oggi”, hanno una meta sicura: l’adozione a figli di Dio, quindi la conformità a Cristo e la partecipazione alla Sua resurrezione.
Commento al Vangelo
La missione di Gesù in Galilea è in crisi: i capi dei giudei e le folle, che guardano ad essi come ai loro maestri, cominciano a rifiutare il suo messaggio. Si stempera il fervore creato dalla predicazione iniziale e dai numerosi miracoli compiuti. I discepoli domandano angosciati al Maestro come ciò possa accadere: è a questo punto che Gesù risponde loro attraverso la “parabola del seminatore”, la prima delle sette che occupano il capitolo 13 di Matteo e che spiegano in che cosa consista il “Regno dei cieli”.
Il termine greco parabolè (confronto) indica un paragone destinato a rendere comprensibile un insegnamento difficile: l’enigma che contiene in sé può essere compreso solo da chi ha il cuore aperto all’ascolto. «Chi ha orecchi, ascolti» (v.9), ripete spesso Gesù al termine delle parabole: la loro comprensione richiede impegno e disponibilità a mettersi in discussione.
Il seminatore “esce” a seminare così come Gesù “esce” dalla casa nella quale era con i discepoli, per gettare nel mondo il “seme” della Parola di Dio: da una barca collocata sul lago di Tiberiade, prefigura della Chiesa che solca i mari tempestosi della storia, Gesù illustra il destino cui la Parola di Dio può andare incontro. Il primo terreno rappresenta coloro che, spinti dal Maligno (gli uccelli), si oppongono a Cristo, come le autorità religiose giudaiche; il secondo ed il terzo sono immagine delle folle che, mosse da un’iniziale fervore, non perseverano nell’ascolto e si lasciano fuorviare dalle preoccupazioni mondane; il quarto, infine, la terra (in ebraico adama’) “buona”, come “buono” era Adamo appena uscito dalle mani del Creatore, indica i Dodici e i discepoli, cioè coloro che, in misura diversa (chi “il cento”, chi “il sessanta”, chi “il trenta per uno”), seguiranno gli insegnamenti del Cristo. Precisiamo che con le tecniche agricole dell’epoca, in Palestina un sacco di semi dava 7/8 sacchi di raccolto: Gesù, quindi, esagera le proporzioni per dire che la semina del Regno è sempre al di sopra di ogni aspettativa.
Nei vv.10-17 i discepoli “si avvicinarono” a Gesù e domandano perché parli “loro” in parabole: Gesù distingue i discepoli (“voi”) dalle folle (“loro”). Ai primi è data in dono una conoscenza dei “misteri del Regno dei cieli” che “a loro non è data” e che “molti profeti e molti giusti” dell’Antico Testamento hanno desiderato vedere e ascoltare.
Le profezie di liberazione di Isaia (Is 8,23-9,1) si realizzano pienamente ora con la venuta del Cristo. La parabola offre la luce della verità a tutti, anche a coloro che “stanno fuori” (12,46); perché essa non resti un enigma bisogna però avvicinarsi a Gesù, domandare, ammettere la durezza del proprio cuore e convertirsi: più uno desidera amore più ne riceve; più riceve più desidera. Chi non ha desiderio, invece, isterilisce, come i capi dei giudei che, pur appartenendo al popolo eletto, destinatario della Promessa, non riconoscono il Messia.
La spiegazione della parabola ai vv.18-23, che Gesù espone solo ai discepoli, serve a farci comprendere che cosa dobbiamo cambiare in noi per divenire terra “buona”, feconda: dalla consapevolezza del proprio male (gli uccelli che rubano i semi sulla strada), della propria incostanza (il terreno sassoso) e della sottomissione al giogo delle preoccupazioni mondane (i rovi), nasce la lotta per sciogliere la durezza di cuore. La guarigione e i frutti della conversione saranno allora un dono gratuito del Padre.
L’esito certo della vittoria del bene passa per la lotta, l’”agonia”: il Regno dei cieli non ha uno sviluppo trionfale e omogeneo, non sorge dalla capitale, Gerusalemme, come si aspettavano i capi del popolo, ma inizia in Galilea, dalla periferia. Inoltre esso vince nella storia, ma spesso attraverso la propria sconfitta, come il seme che muore per generare la vita, e nel perdurare stesso del male, come illustrerà la parabola successiva della “zizzania” (Mt 13,24-30). Il Regno c’è, ma non è ancora compiuto: viviamo il tempo della fatica della semina con la stessa speranza incrollabile del seminatore. Dio si fida del seme e della terra: Egli vede nella fatica il risultato.
Commento francescano
Nella XXII “esortazione da farsi ai frati”, nella Regola non bollata (FF, 56-62), San Francesco invita i suoi confratelli a guardarsi bene “di non essere terra lungo la strada, o terra tra la roccia o tra le spine” (XXII, 10): “guardiamoci bene dalla malizia e dall’astuzia di Satana, il quale vuole che l’uomo non abbia la mente e il cuore rivolti a Dio”, “sotto pretesto di ricompensa, di opera da fare e di aiuto da dare” (XXII, 19-20). “Prego tutti i frati…che, allontanato ogni impedimento e messa da parte ogni preoccupazione e ogni affanno, in qualunque modo meglio possono, debbano servire, amare, adorare e onorare il Signore Iddio, con cuore puro e con mente pura” (XXII, 26). San Francesco ricorda (XXII, 41-55) che Gesù stesso, nel Vangelo di Giovanni (17,6-26), prega il Padre perché coloro ai quali ha scelto di manifestare il Suo nome, vengano custoditi: non tolti dal mondo, ma preservati dal male. ”Santificali nella verità” implora Gesù al Padre: “La tua parola è verità…Come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato nel mondo loro”.
Preghiera finale
“Niente…ci ostacoli, niente ci separi, niente si interponga” (FF, 31) fra il cuore dell’uomo e la Parola di Dio: riconosciamo senza paura la nostra inclinazione al male, la superficialità, il ripiegamento su noi stessi e sui nostri affanni, e consegniamoli alle mani sapienti del seminatore che sa trarre frutti abbondanti dal terreno, a volte buono a volte arido, delle nostre anime.