LECTIO DIVINA – 13 Ottobre 2019 – XXVIII Domenica T. O. / C

                    

 

 2Re 5,14-17; Dal Sal 97(98); 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19

 

 

Il tema portante di questa liturgia domenicale non è la Lebbra come malattia e la relativa guarigione, ma la gratitudine che scaturisce da una fede che si lascia stupire dal Signore Gesù e il dono della salvezza che si riceve.

Papa Francesco qualche anno fa diceva: “Certe volte viene da pensare che stiamo diventando una civiltà delle cattive maniere e delle cattive parole, come se fossero segno di emancipazione. La gentilezza e la capacità di ringraziare vengono viste come un segno di debolezza, a volte suscitano addirittura diffidenza. Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. Se la vita familiare trascura questo stile, anche la vita sociale lo perderà. La gratitudine, per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio. Una volta ho sentito dire da una persona anziana, saggia, molto buona, semplice, ma con quella saggezza della pietà, della vita: “La gratitudine è una pianta che cresce soltanto nella terra delle anime nobili”. Quella nobiltà dell’anima, quella grazia di Dio nell’anima ci spinge a dire grazie. È il fiore di un’anima nobile. È una bella cosa questa!’.”

 

 

Testo e commento alle letture

 

Dal secondo libro dei Re

In quei giorni, Naamàn, [il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra]. Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò. Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

 

Quello che non abbiamo letto di questo episodio ci toglie un po’ il significato dell’avvenimento. Naaman, chiede al profeta la guarigione dalla lebbra, da pagano si aspettava che Eliseo avrebbe compiuto qualche strano rituale, agitando le mani vistosamente su di lui, per guarirlo dalla lebbra, invece Eliseo lo fa immergere nel Giordano 7 volte e Naaman prima di immergersi si ribella.

Nella sua mentalità questo è comprensibile, ma la parola di Dio ci viene a liberare dalle nostre convinzioni errate, anche quelle che reputiamo sicure perché tramandateci dai nostri padri.

Dio allora usa ciò che ci fa rendere conto di non essere onnipotenti, come la lebbra per il protagonista del racconto biblico, lascia che ci scontriamo con i nostri limiti, che arriviamo al punto di sentirci impotenti, perché è solo lì che – forse – finalmente rivolgiamo lo sguardo verso l’alto, verso l’unico vero bene.

E questo è già un primo passo di guarigione, quello dell’orgoglio.

Nel caso di Naaman, poi, l’orgoglio è stato doppiamente provato. Prima di tutto perché ha dovuto umiliarsi andando a cercare la guarigione in terra straniera, nientemeno che la terra della sua schiava, secondo, poi, perché non solo il profeta non lo degna di un incontro, ma gli manda a dire di fare una cosa banale, bagnarsi sette volte nel Giordano.

Comprensibilmente, Naaman si indigna. Anche noi faremmo altrettanto, e forse lo facciamo.

Desideriamo, infatti, che Lui ci risolva i problemi, ma in modo magico. Cerchiamo le loro cause spesso fuori di noi, e ci rivolgiamo a quello o a quell’altro super carismatico che “agitando le mani” (come Eliseo secondo Naaman) ci scacci via il male.

Sarebbe bello, ma non è così.

“Colui che ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te”, diceva S. Agostino.

 

 

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo

Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede:  Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso.

 

Nella seconda lettura san Paolo invita Timoteo a ricordarsi che la gratitudine è anche memoria e pertanto le sue sofferenze, quelle di Paolo, sono “per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza”. La sofferenza non è fine a se stessa, unita a Cristo è causa di salvezza per se e per gli altri. Il brano della lettera termina ricordando, a noi e a Timoteo, che la libertà della parola che ha crocifisso Gesù di Nazaret e ha incatenato Paolo, si è rivelata efficace, poiché è diventata non solo la nostra ragione di vita ma anche la nostra ragione di speranza.

 

Testo e commento al Vangelo

 

Dal Vangelo secondo Luca  

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Gesù è in cammino verso Gerusalemme e attraversa la Samaria, che era un territorio ostile per i giudei. Gesù è in cammino. E come in ogni lungo cammino, la lentezza favorisce gli incontri, l’attenzione trasforma ogni incontro in evento.

Ed ecco che dieci lebbrosi, una comunità senza speranza, all’improvviso si pone di traverso sulla strada dei dodici, una comunità che cammina con la Speranza Incarnata.

In questo racconto il viaggio di Gesù non è soltanto geografico, egli ci fa percorrere un itinerario di fede che ci fa aprire all’accoglienza di noi stessi e poi degli altri. L’accoglienza di cui parla Gesù in questo testo si manifesta nella guarigione dei dieci lebbrosi. I lebbrosi erano considerati impuri a motivo della loro malattia e quindi relegati a vivere ai margini della società civile ed esclusi dalla comunità religiosa, oltre a sostare lontano dai centri abitati per evitare il contagio. I lebbrosi scorgono Gesù da lontano e invocano il suo aiuto. Lo chiamano per nome. Sono fiduciosi che Gesù possa offrire loro il suo aiuto. Gesù non è mai insensibile alla sofferenza altrui, soprattutto di coloro che vivono maggiori disagi e difficoltà. Anche questa volta Gesù incarna l’amore del Padre verso i piccoli, gli ultimi, tanto preziosi al vangelo di Luca.

Gesù non tocca i lebbrosi, come spesso era avvenuto (Luca 5,12-14), bensì li invia dai sacerdoti preposti a certificarne la guarigione. E lungo il cammino che si scoprono guariti e quindi purificati. Ma uno solo dei dieci torna indietro glorificando Dio e ringraziando Gesù prostrandosi ai suoi piedi per la guarigione ottenuta. L’uomo è un samaritano, un odiato e disprezzato. Gesù stesso ne è meravigliato. Ma perché gli altri nove non sono tornati? Che cosa spinge invece il samaritano a ringraziare Gesù?

I nove lebbrosi pensano che la guarigione spetta loro di diritto perché membri del popolo eletto, perciò non considerano l’attenzione che era stata loro rivolta da Gesù. Invece il samaritano con umiltà riconosce che la sua purificazione è stata un dono gratuito di Dio, ricevuto per mezzo di Gesù. Grazie a questo samaritano scopriamo una dimensione di gratuità della vita che noi spesso dimentichiamo; la salvezza che il Padre ci offre in Gesù è puro dono e non dipende dai nostri meriti o dalle nostre qualità.

La fede che salva non è una professione verbale, non si compone di formule e parole ma di gesti pieni di cuore: il ritorno, il grido di gioia, l’abbraccio che stringe i piedi di Gesù. Il centro della narrazione è la fede che salva. Tutti e dieci sono guariti. Tutti e dieci hanno creduto alla parola, si sono fidati e si sono messi in cammino. Ma uno solo è salvato. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, rinasce una pelle di primavera. Nella salvezza ritrovi la sorgente, tu entri in Dio e Dio entra in te, e fiorisce tutta intera la tua vita. Quest’uomo riceve guarigione fisica ma anche salvezza, riceve la piena benedizione del ministero di Gesù. Infatti a lui e non agli altri, Gesù dice: “Non si è trovato nessuno che sia tornato per dar gloria a Dio tranne questo straniero?”. “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. Ed è questa salvezza gratuitamente ricevuta che lo spinge a ringraziare e lodare Dio. Il suo gettarsi ai piedi di Gesù non indica sudditanza ma è un segno di riconoscenza che diventa “riconoscimento di un Dio che ci può sempre salvare e accogliere”. Il samaritano ci aiuta a comprendere che noi, non abbiamo meriti o diritti davanti a Dio. Tutto ci è dato per grazia, tutto ci è dato come dono, cominciando dal dono della propria vita. Gesù ci invita a fare come il lebbroso, a tornare indietro, a correre da lui lodando e ringraziando Dio a gran voce. Dopo l’esperienza della salvezza, non possiamo più rinchiuderci nel nostro mondo, nella nostra tranquilla “beatitudine” e dimenticarci di tutto e di tutti. La gioia dell’incontro con Gesù e la salvezza che egli offre non saranno mai vere se non le condividiamo e le mettiamo al servizio degli altri. E’ nell’amore e nella condivisione che riscopriamo la bellezza e la gioia di avere Gesù come medico e come salvatore.

 

Commento Patristico

 

La letteratura patristica ha sempre considerato con grande attenzione il particolare attributo di Gesù di essere medico. La medicina si presta infatti molto bene a giocare sullo scarto semantico tra una cura dei corpi (ìasis) e la salvezza (soterìa) delle anime. 

I Padri della Chiesa affrontano con una certa gradazione il discorso dell’azione salvifica di Cristo medico. Innanzitutto, tiene a precisare Cirillo di Gerusalemme, prima di essere colui che salva (sotèr), Gesù è «colui che guarisce (iòmenos); infatti è medico delle anime e dei corpi e il guaritore degli spiriti» (Catechesi, 10, 13). Eusebio di Cesarea, citando un brano dell’Apologia di Kodratos, sottolinea la realtà della pratica medica di Cristo: «Le opere del nostro Salvatore sono sempre presenti perché erano vere. Quelli che ha guarito, quelli che ha risuscitato dai morti, costoro – i guariti e i risuscitati – non solo sono stati visti, ma sono anche ancora presenti» (Storia ecclesiastica, iv, 3, 2).

 

Commento Francescano

 

Il Testamento di Francesco comincia con questa nota autobiografica: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo”.

In questo incontro il lebbroso è rimasto lebbroso, Francesco è rimasto Francesco, ma ciò che era amaro è diventato dolcezza. E’ qui il miracolo e la bellezza della vita minoritica, papa Francesco dice ai frati: « La “minorità francescana” è dunque anzitutto luogo di incontro e comunione con Dio per san Francesco l’uomo non ha nulla di suo se non il proprio peccato, e vale quanto vale davanti a Dio e nulla più”.

Siate dunque davanti a Dio come un bambino: “umile e confidente” “consapevole del suo peccato”.

“E attenzione all’orgoglio spirituale, all’orgoglio farisaico: è la peggiore delle mondanità.”

Ciò che serve è una “spiritualità di restituzione a Dio”, “secondo la logica evangelica del dono, che ci porta a uscire da noi stessi per incontrare gli altri e accoglierli nella nostra vita”».

 

Orazione Finale

 

O Dio, fonte della vita temporale ed eterna, fa’ che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello in questo giorno santo torni a renderti gloria per il dono della fede, e la Chiesa intera sia testimone della salvezza che tu operi continuamente in Cristo tuo Figlio. Per Cristo nostro Signore. Amen

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