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NEWSLETTER n° 10 - 21 settembre 2017

LECTIO DIVINA

24 settembre 2017

XXV Domenica del Tempo Ordinario / A

XXV T.O. - A
Is 55,6-9; Sal 144,2-3.8-9.17-18; Fil 1,20c-24-27; Mt 20,1-16

Le letture della XXV Domenica del tempo ordinario ci invitano a riflettere su come le nostre vie, i nostri pensieri, i nostri desideri e i nostri progetti di vita siano diversi e lontani dal progetto che Dio ha per ciascuno di noi. Dio vuole far sì che diventiamo suoi discepoli e suoi testimoni incarnando la sua Parola nella nostra vita e vivendo l’Amore e la carità verso i nostri fratelli ma noi dobbiamo ricordarci che la sua logica, la logica del Vangelo, non solo è diversa dalla logica del mondo, ma la supera.

Commento alle letture

La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, è uno scritto profetico redatto durante l’esilio a Babilonia mentre gli ebrei erano schiavi. La salita al trono del re Ciro sembrò una nuova opportunità per il popolo eletto che colse il successo del re come una possibilità di liberazione. Il profeta Isaia però lo richiama a ritornare a Dio seguendo una via senza grandezza di prestigio, come al contrario sognavano gli ebrei. La parola del Profeta è un richiamo ad abbandonarsi a Dio seguendo le sue vie:
“ I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” .
Dovremmo meditare a lungo queste parole ed applicarle nella nostra vita quotidiana, infatti l’abbandono totale in Dio ci porta a modificare il nostro modo di pensare e di agire.

Nella seconda lettura l’apostolo Paolo, rivolgendosi alla comunità dei Filippesi, dice che ad ogni cristiano deve stare a cuore l’appartenenza e la fedeltà a Cristo. “Essere con Gesù deve essere il più grande desiderio di ogni credente per poter vivere evangelicamente la propria vita fino a rinnegare sé stessi. “Per me vivere è Cristo” ci dice san Paolo, questa espressione si può tradurre per me Cristo è tutto”: è il fine per cui fatico, la ricompensa delle mie tribolazioni.

Commento al Vangelo

La parabola evangelica di questa domenica ci invita alla conversione di tutto noi stessi perché i ragionamenti umani non valgono per Dio. Anche la giustizia degli uomini non è come Dio amministra la sua giustizia.
Gesù paragona il suo Regno ad un padrone di casa che esce all’alba per le piazze per prendere a giornata dei lavoratori per la sua vigna. Gesù chiama tutti a lavorare per il Regno dei cieli e non fa differenze di persone, non misura e non valuta gli altri in base a quanto lavorano… Gesù a chi incontra nella piazze dice: “Andate anche voi nella vigna” . Infatti stare una giornata senza fare niente crea angoscia, perdita della speranza, toglie il respiro al cuore. Poi finalmente la chiamata ed è la gioia, la vita, si risuscita. Il lavoro è vero dono di vita e se tutti comprendessimo questa verità, avremmo un altro rapporto con Dio.
Gesù in questa parabola alla fine della giornata, iniziando dagli ultimi lavoratori, paga ciascun operaio con un denaro, gli ultimi operai vedendo ciò iniziano a mormorare dicendo: “ Questi ultimi hanno lavorato soltanto un’ora e li ha trattati come noi , che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Gesù risponde loro: “Non posso fare delle mie cose quello che voglio?” Per ognuno di noi l’agire di Dio in alcune situazioni, sembra ingiusto. Infatti, in un rapporto di lavoro puramente umano la critica degli operai sarebbe più che ragionevole, ma qui si tratta del rapporto tra l’uomo e Dio, dove ciò che conta non è la durata del lavoro ma la risposta d’amore all’Amore gratuito del Padre. Chi di noi non avrebbe reagito e criticato il padrone della vigna come hanno fatto i primi operai? Quante volte nel nostro quotidiano misuriamo quante azioni o quante faccende l’altro compie? Giudicare, misurare, criticate l’altro è frutto di gelosia ed invidia e ciò non ci fa relazionare bene né con il nostro prossimo e né con il Signore e neppure con noi stessi. Nella sua vigna c’è spazio per tutti e ogni ora può essere quella giusta. Così come ogni nostra situazione di vita deve essere la vigna che ci è affidata per curarla e metterla in grado di portare molto frutto e questo non per rinchiuderci egoisticamente in un ambito ristretto ma per riconoscerci a partire dal concreto dell’esistenza.
Siamo tutti pronti a riconoscerci tra gli operai che hanno accettato l’invito della prima ora, ma quale potrà essere la chiamata che il Signore ci riserva per l’ultima ora, per la sera della nostra vita?
Riconoscersi tra i chiamati alla salvezza deve significare renderci disponibili ad accogliere ogni chiamata, anche la meno gratificante, o la più difficile e dolorosa.


Commento francescano

San Francesco nel capitolo XV della Vita Prima di san Tommaso da Celano ammoniva i frati dicendo loro : “Gelosia, malizia, rancore, diverbi, sospetto e amarezza non trovino posto tra di voi, ma soltanto concordia, costante serenità, azioni di ringraziamento e di lode. Ecco i princìpi con i quali il pio padre educava i suoi figli e non semplicemente a parole, ma soprattutto con le opere e nella verità. Francesco infatti provava invidia solo verso i più poveri di lui ma ciò si vive soltanto se il cuore è umile, mite e se è libero da desideri di grandezza e di dominio. Cerchiamo di seguire l’insegnamento dell’apostolo Paolo che diceva: “Gareggiate nello stimarvi a vicenda”.

Orazione finale

O Padre, giusto e grande nel dare all’ultimo operaio come al primo, le tue vie distano dalle nostre vie quanto il cielo dalla terra ; apri il nostro cuore all’intelligenza delle parole del tuo Figlio, perché comprendiamo l’impagabile onore di lavorare nella tua vigna fin dal mattino. Per il nostro Signore…


Pensiero del giorno

dal 11 al 17 settembre

Testi liberamente tratti da una conversazione del Cardinal Carlo Caffarra,
con un gruppo di famiglie, agosto 2016, Corvara – Bz)

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L’EMERGENZA EDUCATIVA

Nella condizione in cui ci troviamo l’atto educativo, l’educare, questa azione dell’educare, non è diventata difficile, è diventata impossibile. Perché è diventata impossibile? Perché è diventata impensabile, cioè è impensabile l’educare, non l’istruire, anche perché l’istruzione alla fine è una processo anche molto impersonale. È diventato impensabile, perché l’educazione essenzialmente consiste nella trasmissione di un progetto di vita che la generazione dei padri compie nei confronti della generazione dei figli, sulla base di una forte autorevolezza che fa dire alla generazione dei padri: «Questo è il progetto vivendo il quale tu vivi una vita buona, bella, giusta».
Per spiegare bene il mio concetto vi ricordo un rito che avviene nella cena pasquale ebraica. Voi sapete che la Pasqua ebraica, diversamente dalla Pasqua cristiana, è una festa esclusivamente familiare. Cioè la Pasqua la si celebra solamente in famiglia. La cena è il momento più grande della celebrazione familiare della Pasqua, la cena pasquale, come ha fatto Gesù con gli apostoli, è regolata da un rito molto molto preciso, che deve essere rigorosamente seguito dal capotavola. Ad un certo momento il più piccolo che è a tavola deve, secondo il rito, chiedere al più anziano, a capotavola: «Ma cos’è questa cena? Ma perché mangiamo solo verdure amare?». Quello a capotavola doveva rispondere così: «Perché eravamo schiavi sotto il faraone, il Signore ha ascoltato le nostre grida, noi siamo stati liberati». Narrava tutta la storia del popolo di Israele non come una serie di eventi che semplicemente bisognava imparare, ma una serie di eventi che ti aiutavano a vivere ora. Se noi riflettiamo un momento su questo rito, qui vediamo proprio in atto quella definizione di azione educativa che vi dicevo prima. Una generazione che, come dice il salmo, narra all’altra le meraviglie del Signore.
Attraverso l’atto educativo il bambino diventa consapevole di appartenere ad una storia, cioè ad un popolo.
Questa consapevolezza di una tradizione vivente che il nonno e i genitori gli stanno trasmettendo è ciò che assicura a lui la vera libertà. Prima erano schiavi!

EDUCARE ( = educare: condurre fuori da …, tirar fuori ciò che sta dentro)

Questa è l’educazione: se io generazione dei padri non ho nessun progetto da comunicare voi capite che l’educazione diventa impossibile. Si dice: «Io non voglio comunicare nulla, perché quando poi sarà arrivata l’età giusta farà le sue scelte». Questo pensiero genera degli schiavi, siatene certi.
Non può accadere il rapporto educativo fra le generazioni se colui che trasmette non ha l’autorità di poter dire: «Questo che ti trasmetto è il progetto di una vita buona, cioè di una vita che ti può fare felice, che ti può rendere vero e giusto». Questo è il principio di autorità.
Tutto questo che vi ho detto non viene messo in crisi, viene semplicemente distrutto se noi accettiamo il dogma del relativismo, perché a quel punto una proposta vale l’altra, un progetto vale l’altro.
Questa è la condizione, ormai una sorta di afasia, cioè non sapere più parlare, da parte della generazione dei padri nei confronti dei figli, e poi l’oscurarsi di appartenere ad una storia, ad una tradizione nel senso alto del termine come condizione, come terreno in cui la mia umanità può fiorire.

SERVE CORAGGIO PER SPOSARSI (Papa Francesco, 6.5.2015)

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? Il punto riguarda la condizione in cui oggi versa l’istituto matrimoniale, non il sacramento del matrimonio, l’istituto matrimoniale e l’emergenza educativa, o se volete il rapporto educativo intergenerazionale.
La prima questione nell’affrontare questo punto è la condizione generale. Se io voglio disfarmi di un edificio ho due possibilità, la prima: metto una mina e lo distruggo; la seconda possibilità è che lo smonto pezzo per pezzo. Il risultato di questi due processi è molto diverso, perché nel primo caso mi trovo solo con delle macerie, nel secondo caso mi trovo con tutti i pezzi, ma non c’è più l’edificio. Ciò che è accaduto all’istituto matrimoniale è la seconda cosa. L’istituto matrimoniale è stato smontato pezzo per pezzo. Abbiamo ancora tutti i mattoni che componevano questo edificio, ma non abbiamo più l’edificio. È stato un processo plurisecolare, non è cominciato ieri sera.
Un processo plurisecolare composto da vari processi, che hanno costituito questo processo decostruttivo. Infatti noi abbiamo tutti i pezzi. Si parla ancora di maternità, ma a questo punto uno si chiede chi è la madre, in cosa consiste la maternità. Domanda a cui i giuristi romani si sarebbero messi a ridere.
La solita espressione che chi studia giurisprudenza conosce bene è “mater semper certa” – la madre è sempre certa –, oggi non è più possibile. È madre chi mette gli ovuli? È madre chi affitta l’utero? È madre chi prende poi il bambino?
Vedete questo è un pezzo fondamentale dell’istituto matrimoniale, che esiste ancora ma la sua definizione non è più univoca. La categoria della coniugalità è sempre stata una evidenza originaria. La coniugalità era una particolare correlazione fra uomo e donna. Oggi non è più così. Si qualifica come coniugale anche la correlazione fra due uomini o due donne e le precisazioni potrebbero continuare.
Arrivati a questo punto, e questa è una cosa gravissima, la più grave, di cui non dobbiamo mai perdere consapevolezza, non per scoraggiarci ma per sapere come stanno le cose, a questo punto la definizione dell’istituto matrimoniale è demolita, non si sa più cosa è il matrimonio e quale via può percorrere questo uomo che ha demolito il palazzo. Accade che ci si rivolga al potere perché ci dica cosa è il matrimonio e, almeno nei paesi democratici, il potere agisce attraverso il criterio della maggioranza e quindi è la maggioranza che decide che cosa sia il matrimonio. Questa è la situazione, cioè la condizione di un istituto, quello matrimoniale, decostruito.

PATTO D’AMORE TRA UN UOMO E UNA DONNA (Codice di diritto Canonico, 1055, §1

Decostruito vuol dire che ci sono tutti i pezzi ma il loro significato non è più univoco e la definizione del matrimonio è lasciata agli organismi del potere. Ho avuto la netta impressione di cosa sta accadendo tempo fa. Ero al mare, e in una casa dove c’erano nonni con i bambini, famiglie, eccetera. Un bimbo era diventato mio grande amico, mi aspettava, voleva parlare con me. Ha sei anni ed era lì con i nonni. Un pomeriggio eravamo noi due, i nonni erano ad una certa distanza, mi dice: «Lo sai che il mio amico ha due mamme?». «Ah sì?» ho detto io. «Io però ne ho una sola, e secondo me è meglio averne una sola che due. E tu pensi che sia meglio averne una o due?» ha continuato il bambino. «Assolutamente è meglio averne una» ho detto io. «Ah meno male» dice il bambino come dire meno male che mi dai ragione.
Incredibile, un bimbo di sei anni che già si pone il problema se è possibile o no, se è meglio o no avere due mamme anziché una. Questa è la situazione del matrimonio. Legata a questa situazione c’è la condizione in cui si trova l’educazione, che posso spiegare in questi termini.

COSA FARE?

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? La domanda presuppone una certezza La enuncio e poi ritorno alla domanda. In una condizione come la nostra non basta più l’esercizio delle virtù individuali degli sposi, non basta più la semplice testimonianza di una vita retta. Non illudiamoci, questo non basta ma è necessario introdurci, reintrodurci dentro a questa condizione proponendo e realizzando qualcosa di nuovo, di diverso. Questa premessa non vale solo per il matrimonio, in fondo è una visione della vita cristiana.
In questa situazione lo sposo e la sposa cristiana cosa dicono e cosa propongono?
Il matrimonio non lo ha inventato Gesù Cristo come per esempio l’Eucarestia, uomini e donne si sposavano anche prima di Gesù Cristo, e la Chiesa ha sempre avuto un grande rispetto del matrimonio naturale e lo ha sempre reso possibile.
Il matrimonio cristiano quindi non deve essere inteso come qualcosa che si aggiunge, ma come la trasformazione: il matrimonio cristiano è un sacramento. La grande parola, diciamo pure il grande dono che il cristianesimo fa all’uomo e alla donna che si sposano, è il sacramento del matrimonio, la cui sacramentalità non è un francobollo che si attacca ad una busta che è il matrimonio naturale: avendo in sé la presenza operante di Cristo, il sacramento consiste non solo nel legare reciprocamente l’uno all’altra ma la presenza di Cristo fa sì che questo vincolo sia simbolo reale della appartenenza alla Chiesa. Ne deriva quindi l’indissolubità del matrimonio. Non perché quindi gli sposi promettono di essere fedeli e i galantuomini mantengono le promesse. Neppure per una questione morale questione ma è un fatto soprannaturale perché nel loro reciproco legarsi uno all’altra si legano a Cristo e alla Chiesa e viceversa.

LA POTENZA DI DIO CHE OPERA

Non c’è infedeltà, non c’è miseria, non c’è litigata che sia più forte di questo evento sacramentale che è accaduto. Non li può più distruggere.
Una signora bolognese che aveva perso da poco il marito mi diceva che negli ultimi giorni di vita il marito le chiese di lasciargli la fede matrimoniale nella cassa. Lei non capiva perché, nessuno lo aveva mai fatto. La fede matrimoniale dell’uno la porta al dito l’altro che è rimasto vivente. Lui rispose: «Io voglio che anche tutti gli angeli sappiano che io sono stato tuo marito». Il commento di questa vedova fu: «Eminenza, mi creda, questo è il più bel complimento che un uomo possa fare a una donna». La potenza di Cristo che opera!
Naturalmente esige che sia trasfigurato anche l’amore coniugale, che sia immesso dentro a questo vincolo che è simbolo reale del rapporto Cristo Chiesa. Infatti il grande dono che il sacramento fa e continua a fare è il dono della carità coniugale. La carità coniugale non è semplicemente l’amore fra un uomo e una donna ma è questo stesso amore che viene per così dire trasfigurato, elevato ma non distrutto. Non è semplicemente l’eros fra l’uomo e la donna, ma è l’eros che non viene distrutto, perché viene trasfigurato, integrato dentro un modo nuovo di amarsi.

VOLTI E OCCHI DI FUTURO

I due sposi sono radicati nel più profondo del mistero della Chiesa, dentro alla tradizione della Chiesa, ossia nella vita della Chiesa, nella sua fede e quindi nel suo modo di vedere e interpretare gli avvenimenti della vita. La vita della Chiesa e il suo celebrare il Signore Gesù nella liturgia della Chiesa vengono radicati dentro la tradizione della Chiesa.
Attenzione: i genitori vengono resi capaci di trasmettere ai loro figli questa tradizione della Chiesa e solo loro sono capaci di fare questo. Come c’è un sacramento che abilita alcuni cristiani a celebrare il sacramento dell’Eucarestia, a rendere cioè presente Cristo nella Sua Chiesa, c’è un sacramento che abilita, rende capace l’uomo e la donna di trasmettere la tradizione della Chiesa, la vita della Chiesa. (…)

Abbiamo pensato, a questo punto, di lasciare questa riflessione sul matrimonio per una immagine che meglio di tante parole ci aiuta a capire il senso della per testimonianza del cardinale Carlo Caffarra. È un’immagine che ci viene dal recente viaggio di Papa Francesco. Lasciando la Colombia, in aereo, così commentava con i giornalisti:
«Quello che più mi ha colpito era la folla lungo le strade, i papà e le mamme che alzavano i loro bambini per farli vedere al Papa perché il Papa li benedicesse. Come dicendo: "Questo è il mio tesoro. Questa è la mia speranza. Questo è il mio futuro. Io ci credo". Questo mi ha colpito: la tenerezza, gli occhi di quei papà e di quelle mamme. Bellissimi, bellissimi. Questo è un simbolo, un simbolo di speranza, di futuro. Un popolo capace di fare bambini e poi farli vedere così, come dicendo "questo è il mio tesoro", è un popolo che ha speranza e ha futuro».

Un popolo che culla fiero il tesoro dei suoi figli ha già passato il crinale dell’odio e della morte. Un popolo così, ha detto il Papa con quegli occhi nella memoria, ha già speranza, ha già futuro.


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