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NEWSLETTER n° 5 - 1 febbraio 2019

  • LA VITA INTERIORE OGGI E' ANCORA POSSIBILE? - Luciano Manicardi
  • LECTIO DIVINA - 3 Febbraio 2019 - IV Domenica T.O. / C

La vita interiore oggi è ancora possibile?

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Il 2 Febbraio celebriamo la giornata nazionale per la vita. Facciamoci raggiungere da una provocazione profetica di un libro di Luciano Manicardi, priore di Bose: "La vita interiore oggi è ancora possibile?", perché alla base della difesa della vita, di ogni vita, c'è una consapevolezza, una interiorità custodita.

"La vita interiore oggi è ancora possibile? Siamo capaci di abitare noi stessi o stiamo diventando un “non luogo” a noi stessi? L’attuale ipertrofia della comunicazione crea un uomo senza spazio interiore. Siamo sopraffatti da troppa informazione; il mondo ci è offerto istantaneamente, ma siamo incapaci di contemplarlo. La società dei consumi ha abolito la durata, si disimpara a indugiare, ad attardarsi.
La vita interiore ha a che fare con la costruzione quotidiana delle nostre vite, che altrimenti rischiano di scorrere via senza consapevolezza e lucidità. È una dimensione che apre una via, sollecita la ricerca, riguarda quella conoscenza di sé che ha una ricaduta nel rapporto con l’altro. La vita interiore richiede capacità di fare silenzio, di abitare la solitudine. La nascita all’interiorità è nascita alla libertà".

LECTIO DIVINA

3 Febbraio 2019
IV DOMENICA T.O. / C

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Ger 1,4-5.17-19; 1Cor 12,31-13,13; Sal 70/71; Lc 4,21-30



Quando si avvera una profezia e si realizza ciò che Dio aveva promesso e detto, non accade mai come l'uomo se lo aspetta, è ovvio.
Il Signore ascolta e provvede sempre quando l'uomo gli chiede aiuto per qualche problema, ma non sempre con soluzioni che l'uomo può prevedere.
Noi siamo portati a vedere solo fino alla punta del nostro naso e con la nebbia negli occhi il più delle volte; ma Dio quando concretizza i nostri sogni non lo fa come lo faremmo noi, ma in modo del tutto splendido, imprevisto e molto, molto efficace.
Donandoci il Figlio Gesù, Dio Padre ha realizzato il cuore del suo Progetto e della sua Profezia, rispondendo a tutti i sogni e i desideri di liberazione e di salvezza di tutti gli uomini e di tutti i tempi. Questo però l’ha fatto non seguendo la logica umana: "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie" (Is 55,8). È per questo che, come gli abitanti di Nazareth, abbiamo preso Gesù e lo abbiamo ucciso e gettato via dalla nostra storia come un delinquente.
Se l'uomo non accoglie umilmente i disegni di Dio, vedrà regnare su di sé e su tutto ciò che tocca e ama, la follia e la violenza fino alla distruzione.
Possibile che a nessuno venga il dubbio che se gettiamo nel dirupo la realizzazione della Profezia fatta carne, Gesù, buttiamo via ogni vero progresso, la sapienza, la bellezza, la pace, la giustizia, la Via, la Verità, la Vita stessa?
Dopo aver gettato Gesù, VIA e VERITA' nel precipizio, pensiamo veramente che le nostre società possano giungere a costruire strade politiche e culturali degne dell'uomo, rispettose della persona umana, della natura, del creato? Oppure quali forme di verità e sapienza possono guidare la scienza, la ricerca medica, l’economia, il mondo del lavoro, le relazioni affettive?
Chiediamocelo, oggi, nella giornata per la difesa della vita: se gettiamo la Vita nell'abisso, quale vita sarà mai più difesa? La tua? La sua? La nostra?


Testo e commento alle letture

Dal libro del profeta Geremia (1,4-5.17-19)

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

Per cogliere il messaggio e la figura del profeta Geremia, dobbiamo collocarlo nelle vicende del suo tempo, alle quali la sua vita e il suo messaggio sono strettamente legati. Dal profeta Baruc (attento scriba, fedele discepolo di Geremia e profeta lui stesso) veniamo a sapere che la missione profetica di Geremia ha avuto una durata di circa 40 anni e ciò gli ha fatto vivere intensamente tutte le vicende di Israele, dal tempo di Giosia fino alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio in Babilonia.
Come per tutti i grandi personaggi della Bibbia, anche per Geremia vengono anticipati nella vocazione gli elementi che caratterizzeranno poi la sua vita e la sua missione. La chiamata ad essere profeta è un dono di Dio: "Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni" (Ger 1,5). In un solo versetto sono racchiuse la totale gratuità della chiamata e la consacrazione della persona a Dio per svolgere la missione che ha ricevuto.
La forza per esercitarla e la fedeltà ad essa vengono da Dio, mentre le modalità concrete sono scelte dagli uomini. La finalità della missione è sempre universale: profeta delle nazioni perché Dio è Signore di tutti gli uomini e la salvezza è sempre rivolta a tutti. Questo messaggio è valido in ogni tempo, perché nessun uomo nasce per caso e tutti hanno un compito, una vocazione nella vita. A tutti Dio dona la forza di compierla e la responsabilità di essere segno per le persone che incontrerà. La vocazione per ognuno di noi è quella scelta che orienta definitivamente la nostra vita e ne determina lo svolgimento e il cammino futuro. La risposta di Dio non si fa attendere: "Non aver paura della gente, perché io sono con te per difenderti!". Dio ha la sua logica! Egli sceglie ciò che è umanamente debole e inadeguato per confondere chi è forte e mostrare così che la missione è sua e non dell’uomo. La forza viene da lui e non dalla capacità e scaltrezza umana.
L’invito per tutti noi è ad aver fiducia in Dio più che nei mezzi umani, ad accettare di ragionare e scegliere con criteri profondamente nuovi, anche se spesso questo comporta lotte, sofferenze delusioni, fallimenti (come sperimenterà drammaticamente lo stesso Geremia e tanti altri prima e dopo di lui).
L’investitura ufficiale a essere profeta (=imposizione delle mani e consegna del compito) comporta l’impegno di parlare a nome di Dio, di essere il suo portavoce, di interpretare la sua volontà sulla storia, di leggere i segni che lui manda agli uomini per guidarli verso la salvezza. Questa missione dà al profeta un’autorità che viene da Dio stesso e che gli uomini dovranno riconoscere e accettare (anche se di solito finisce col provocare conflitti con le autorità costituite che tendono a non riconoscerla, anzi a combatterla). Geremia sarà profeta di sventura, ma anche di consolazione; annuncerà il castigo per il tradimento dell’alleanza, ma anche la ricostruzione e la nuova alleanza scritta nei cuori dallo Spirito. Dio conferma la sua fedeltà al profeta: "Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti" (v.19). Come il profeta Geremia anche noi siamo chiamati a testimoniare la fedeltà di Dio e i grandi frutti di bene che vengono dalle prove (Mt 16,18; Lc 10,20). Meditiamo spesso queste parole per essere fedeli alla vocazione e alla missione che Dio ci ha affidato nella vita.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12,31-13,13)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

L'Inno alla carità, è rivolto da Paolo ai membri della comunità dei Corinzi per ricondurli all'essenza della vita cristiana. Egli con questo scritto intende guidarli sulla via della vera ricerca di Dio: "Vi mostro la via più sublime" (12,31).
Paolo invita i Corinzi ad appassionarsi "ai carismi più grandi" (12,31). Ma quali sono per l'Apostolo i carismi più grandi? Quali per i Corinzi? In risposta Paolo esalta la carità, che non chiama carisma ma Via, e proprio per questo superiore alle altre: la più "sublime".
In questo elogio che Paolo fa della carità, egli parla dell'agape intra ecclesiale. Allude a tre tipi di cristiani: chi possiede il dono delle lingue e tuttavia non comunica nulla; chi conosce, profetizza e fa miracoli e tuttavia non è nulla; chi è tutto generosità, generosità senza limiti, e tuttavia non è utile a niente. Nonostante il loro vantarsi e il loro agitarsi, non concludono nulla, perché manca loro "quel non so che", che Paolo chiama la carità.
Essa non si identifica con il parlare che incanta, né con la fede che fa prodigi né con la semplice generosità. L'assenza di carità annulla ogni azione, si trattasse pure di azioni straordinarie o eroiche. Non semplicemente sminuisce, rendendole meno perfette o meno efficaci, ma proprio le annulla svuotandole di ogni sostanza: senza la carità resta la forma ma non il contenuto, l'apparenza ma non la realtà. "Se non avessi la carità, non sarei nulla" (13,2); l'assenza di carità svuota l'esistenza, non soltanto le azioni. E' la carità che fa essere. Certo anche senza carità si esiste, ma è un'esistenza vuota, si tratti dell'esistenza individuale o comunitaria, non fa differenza. Non più un vivere ma "un fantasma del vivere". Queste parole di Paolo sono profonde e verissime. E' solo quando amo che attingo la verità del mio esistere. Ed è solo quando amo che gli altri prendono importanza e rilievo: altrimenti restano insignificanti, come ombre a cui non attribuisco importanza.
Il cristiano che vive la carità, dice Paolo, è paziente, ha la forza di sopportare le ingiurie e di non renderle. Usa benevolenza, altro tratto della carità, aiuta sorridendo, prevenendo, con tatto discreto.
La carità, inoltre, esclude la gelosia, perché "la gelosia è grettezza, mentre la carità è magnanima; la gelosia è divisione mentre la carità è comunione" (Bruno Maggioni: Il Dio di Paolo). Essa non si vanta, ha il senso delle proporzioni, è seria e prudente; non fa sentire il peso del suo gesto e del suo prestigio al contrario si pone a livello degli altri. Chi vive la carità non è irrispettoso, ma è attento, sensibile e tiene conto della fragilità del prossimo.
"Non cerca il proprio interesse" ma segue l'esempio di Gesù, il quale "non cercò di piacere a se stesso" (Rm 15,3), inoltre, non perde il controllo, quindi non è né acida né collerica.
Chi vive l'amore ha il cuore limpido e semplice. Non tiene conto del male, non gli dà troppo peso, sia nel senso che non giudica il male commesso dal fratello, sia che non tiene conto del male che riceve. La carità non gode dell'ingiustizia, ma ne soffre, ma si compiace della verità dovunque si trovi; e non propaga il male commesso dagli altri, al contrario lo copre con il suo silenzio e con la sua discrezione.
L'amore, conduce a una totale fiducia nel prossimo; inoltre spera il bene e il ravvedimento del prossimo e anche quando le sue speranze sono smentite chi vive la carità, non si lamenta delle freddezze e delle ingratitudini, ma le sopporta.
Paolo conclude il suo ‘elogio alla carità’ affermando che in quanto 'Via' essa è più grande della fede e della speranza.
Quanto dice l’Apostolo è profondamente vero. La fede e la speranza fanno parte del «frattempo», la carità invece del «definitivo». «L’amore non sta dalla parte del non ancora ma del già: essa già in questo mondo, concretizza l’éschaton realizzato».



Testo e commento al Vangelo

Dal vangelo secondo Luca (4,21-30)

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarèpta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Come la scorsa domenica siamo ancora nella sinagoga di Nazareth, dove Gesù durante la liturgia del sabato ha letto la profezia di Isaia sul profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a proclamare la liberazione a tutti gli oppressi, a predicare l’anno della misericordia del Signore (cfr. Is 61, 1-2).
Gesù ha appena commentato queste parole, dicendo agli abitanti di Nazaret là presenti che esse sono giunte a compimento nella sua persona.
Ed ecco che questa breve ‘omelia’ desta stupore tra quelli che la ascoltano, i quali sentono le sue parole come intriganti, piene di grazia e autorevoli. Ricordando la giovinezza di Gesù trascorsa a Nazaret con la sua famiglia essi si domandano: “Non è costui il figlio di Giuseppe, il figlio del falegname?”. Ma questa ammirazione per le sue parole non conduce i Nazaretani alla fede in Lui e a un vero ascolto della sua parola. Si compiono così in questo primo atto pubblico di Gesù le parole pronunziate dal santo vecchio Simeone: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).
Gesù si accorge di questo rifiuto della sua identità, annunciatagli come realizzazione puntuale delle parole profetiche di Isaia. E proprio perché non si ferma alle impressioni superficiali degli uomini, ma “sa cosa c’è nel cuore dell’uomo” (cfr. Gv 2, 24-25), quasi previene e denuncia le intenzioni dei suoi interlocutori: “Certamente voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso, pensa a te, non fare la predica a noi; compi piuttosto anche in mezzo a noi i prodigi che hai operato a Cafarnao e allora conosceremo chi tu sei!”.
Poi Gesù annuncia un altro compimento: “Nessun profeta è ben accetto nella sua patria”; egli infatti dal fallimento vissuto all'inizio del suo ministero non trae sconforto e delusione, al contrario scorge una conferma della sua identità: egli è veramente un profeta e, come tale, può solo essere rifiutato dai suoi fratelli nella fede. Ciò che sta accadendo a lui, è accaduto a Elia ed Eliseo mandati a gente pagana perché rifiutati dal popolo d’Israele (cfr. 1 Re 17; 2 Re 5).
Ma queste parole di Gesù, fanno infuriare i suoi interlocutori, i quali giunti in sinagoga per ascoltare la parola di Dio, davanti a Gesù, Parola fatta carne, non credono, anzi, giungono a volerlo uccidere gettandolo giù da un precipizio.
Di fronte a tanta violenza Gesù non reagisce ma, dice Luca, “passando in mezzo a loro si mise in cammino”.
Ciò che è accaduto ai profeti e a Gesù accade oggi anche nella Chiesa; i profeti mandati da Dio sono accolti più facilmente dai non credenti che dai propri fratelli.
E noi, noi che leggiamo questa pagina, siamo disposti a non scandalizzarci delle parole franche di Gesù?



Commento patristico

All'elogio della carità fa eco san Massimo il Confessore additandola, alla stessa maniera dell'Apostolo Paolo, come Via che conduce a Cristo.

La carità è la migliore disposizione dell’animo, che nulla preferisce alla conoscenza di Dio. Nessuno tuttavia potrebbe mai raggiungere tale disposizione di carità, se nel suo animo fosse esclusivamente legato alle cose terrene.
Chi ama Dio, antepone la conoscenza e la scienza di lui a tutte le cose create, e ricorre continuamente a lui con il desiderio e con l’amore dell’animo.
Tutte le cose che esistono hanno Dio per autore e fine ultimo. Dio è di gran lunga più nobile di quelle cose che egli stesso ha fatto come creatore. Perciò colui che abbandona Dio, l’Altissimo, e si lascia attirare dalle realtà create dimostra di stimare l’artefice di tutto molto meno delle cose stesse, che da lui sono fatte.
Chi mi ama, dice il Signore, osserverà i miei comandamenti (cfr. Gv 14, 15). E aggiunge «Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 17). Perciò chi non ama il prossimo non osserva i comandamenti di Dio, e chi non osserva i comandamenti non può neppure dire di amare il Signore.
Beato l’uomo che è capace di amare ugualmente ogni uomo. Chi ama Dio ama totalmente anche il prossimo e chi ha una tale disposizione non si affanna ad accumulare denaro, tutto per sé, ma pensa anche a coloro che ne hanno bisogno.
Ad imitazione di Dio fa elemosine al buono e al cattivo, al giusto e all’ingiusto. Davanti alle necessità degli altri non conosce discriminazione, ma distribuisce ugualmente a tutti secondo il bisogno. Né tuttavia si può dire che compie ingiustizia se a premio del bene antepone al malvagio colui che si distingue per virtù e operosità.
L’amore caritatevole non si manifesta solo nell’elargizione di denaro, ma anche, e molto di più, nell’insegnamento della divina dottrina e nel compimento delle opere di misericordia corporale.
Colui che, sordo ai richiami della vanità, si dedica con purezza di intenzione al servizio del prossimo, si libera da ogni passione e da ogni vizio e diventa partecipe dell’amore e della scienza divina.
Chi possiede dentro di sé l’amore divino, non si stanca e non viene mai meno nel seguire il Signore Dio suo, ma sopporta con animo forte ogni sacrificio e ingiuria e offesa, non augurando affatto il male a nessuno. Non dite, esclama il profeta Geremia, siamo tempio di Dio (cfr. Ger 7, 4). E neppure direte: La semplice e sola fede nel Signore nostro Gesù Cristo mi può procurare la salvezza. Questo infatti non può avvenire se non ti sarai procurato anche l’amore verso di lui per mezzo delle opere. Per quanto concerne infatti la sola fede: «Anche i demoni credono e tremano!» (Gc 2, 19).
Opera di carità è il fare cordialmente un favore, l’essere longanime e paziente verso il prossimo; e così pure usare rettamente e ordinatamente le cose create”.
(Dai Capitoli sulla carità di san Massimo Confessore, abate; Centuria 1, c. 1, 45. 16-17. 23-24. 26-28. 30-40; PG 90, 962-967)



Commento francescano

Francesco d'Assisi quale Alter Christus ha condiviso in pienezza il destino di Gesù. Come lui anche il Santo, dopo aver ricevuto "per divina ispirazione" il 'comando' di vivere il santo Vangelo nella forma della vita fraterna, sperimenta nella sua carne il rifiuto da parte dei suoi fratelli. Quanto vissuto da lui egli lo addita ai suoi fratelli più vicini quale "Vera e perfetta letizia". Dice infatti a tal proposito a frate Leone che Essa non sta nell'avere nell'Ordine gente colta e di alto rango, ma nell'accogliere umilmente il rifiuto e la persecuzione. Leggiamo:
"Ma quale è la vera letizia? Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, all‘estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: «Chi è?». Io rispondo: «Frate Francesco». E quegli dice: «Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai». E poiché io insisto ancora, I ‘altro risponde: «Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te». E io sempre resto davanti alla porta e dico: «Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte». E quegli risponde: «Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là». Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell'anima" (Della vera e perfetta Letizia, FF: 278).


Orazione finale

Signore, aiutaci ad essere testimoni di bene e non depositari di verità. Pur consapevoli dei nostri limiti, delle nostre incapacità e dei nostri dubbi, rendici sereni e coraggiosi perché tu ci hai scelti e amati. Fa’ che non ci limitiamo a dire cose sublimi ma ad annunciare la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, il tuo intervento dove tutto sembra morto. Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere. Amen.


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