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NEWSLETTER n° 8 - 5 settembre 2017

LECTIO DIVINA

17 settembre 2017

XXIV Domenica del Tempo Ordinario / A

Oggi la liturgia della Parola ci propone il tema del perdono reciproco, dono che viene da Dio stesso. Siamo chiamati ad essere segno visibile di questa misericordia che è capace di farci uscire delle nostre chiusure.



Commento alle letture
La prima lettura, tratta dal libro del Siracide, ci ricorda come i peccati si trovano dentro il cuore dell’ uomo. Tante volte ci lasciamo invadere dall’ira, dal rancore ma se riconosciamo con umiltà e semplicità i nostri peccati,saremo salvati da Dio e coltiveremo nel suo nome relazioni fraterne profonde.
Solo perdonando restiamo fedeli all’amore di Dio. Se coltiviamo sentimenti negativi nei confronti dei nostri fratelli seminiamo solo distruzione e divisione, invece il perdono ci ridona la gioia della salvezza. Possiamo accogliere il suggerimento che ci viene dal Siracide: “Una lite concitata accende il fuoco, una rissa violenta fa versare sangue. Se soffi su una scintilla, divampa, se vi sputi sopra, si spegne; eppure ambedue le cose escono dalla tua bocca”. (Sir 28,11-12).
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani ci dice che Cristo è morto ed è risorto per diventare il Signore dei morti e dei viventi e che quindi la nostra vita e la nostra morte appartengono solo a Lui. La cosa più importante è che ogni cosa che facciamo sia per far piacere a Dio e vivere sotto il suo sguardo d’amore; vivere per il Signore Gesù è sceglierlo ogni giorno.

Commento al Vangelo
Il Vangelo di questa domenica ci parla della necessità di perdonare. L'esempio che Gesù fa è quello del padrone misericordioso che ha avuto pietà del servo che supplicava perdono perche non era in grado di restituire il suo debito; il servo, invece, a sua volta non ha avuto pietà del suo debitore e non ha saputo perdonare. L’espressione di Gesù “settanta volte sette” era un’allusione chiara alle parole di Lamech che diceva: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,23-24). Gesù vuole capovolgere la spirale di odio, di vendetta, di violenza entrata nel mondo per la disobbedienza di Adamo ed Eva, per l’uccisione di Abele da parte di Caino e per la vendetta di Lamech.
Nel Vangelo di Matteo, Pietro domanda a Gesù quante volte deve perdonare il proprio fratello, la risposta di Gesù, non si ferma ad indicarci solo dei numeri, ma semplicemente ci invita a perdonare "sempre".
Nella parabola raccontata, Gesù mette in evidenza la compassione e la pazienza di Dio con noi, questi atteggiamenti ci mostrano non solo la forza di Dio nell’amarci ma la sua tenerezza di ‘Madre’. La benevolenza e la pazienza sono proprie di Dio: se vogliamo amare come Dio, dovremmo armarci di pazienza verso noi stessi e accogliere anche le mancanze dei nostri fratelli.
Oggi il Vangelo ci dice anche che sono i compagni del servo a raccontare al Re che il servo non ha avuto pietà. La comunità, i fratelli, ci portano davanti a Dio nella nostra bellezza e nella nostra ingiustizia. Abbiamo bisogno che qualcuno si prenda cura della nostra vita e sia testimone dell’amore che cerchiamo di vivere; grazie ai nostri fratelli ci presenteremo a Dio perché sono loro l’unica via per vivere veramente da fratelli. Chi per amore del prossimo è pronto a perdonare vive in pienezza l’amore fraterno. Non perdonare è uccidere i nostri fratelli, è negare loro il diritto di sbagliare, di essere umani, cioè soggetti alla precarietà e al limite.
Il perdono non è solo un atto, è una dinamica e in quanto tale deve coinvolgere il nostro quotidiano. Dal perdono reciproco nasce e si costruisce ogni vera comunità cristiana. Solo nel perdono diveniamo sempre più figli di Dio, viviamo da fratelli, generiamo nell’altro Dio.

Commento francescano
Santa Chiara D’Assisi nella sua Regola, al capitolo X, ricordava ad ogni Sorella di vivere alla luce della vera carità che perdona e che accoglie con umiltà i peccati altrui. Dice infatti:
« L'abbadessa e le sue sorelle si guardino dallo adirarsi e turbarsi per il peccato di alcuna, perché l'ira e il turbamento impediscono la carità in se stesse e nelle altre. Se accadesse, il che non sia, che fra una sorella e l'altra sorgesse talvolta, a motivo di parole o di segni, occasione di turbamento e di scandalo, quella che fu causa di turbamento, subito, prima di offrire davanti a Dio l'offerta della sua orazione, non soltanto si getti umilmente ai piedi dell'altra domandando perdono, ma anche con semplicità la preghi di intercedere per lei presso il Signore perché la perdoni. L'altra poi, memore di quella parola del Signore: “Se non perdonerete di cuore, nemmeno il Padre vostro celeste perdonerà voi, perdoni generosamente alla sua sorella ogni offesa fattale”» (FF 2802- 2803).
Come Sorella povera, Chiara viveva innanzitutto nella dimensione della restituzione, del perdono gratuito e generoso, esortava le sue Sorelle a non appropriarsi dei peccati altrui, vivendo senza possesso le relazioni fraterne ed evitando di sentirsi giudice delle sorelle. Chiara ci ricorda di non lasciarsi invadere dell’ira, ma piuttosto essere disposte a vivere nella santa unità.

Orazione finale
Dio, padre nostro e creatore dell’universo, insegnaci ad amarci gli uni agli altri con la stessa generosità e comprensione che tu hai con ciascuno di noi. Donaci lo Spirito Santo perché apra i nostri occhi e i nostri cuori alla tua misericordia, aiutaci ad essere tuoi figli donando come te il perdono ai nostri fratelli. Amen.

Pensiero del giorno

dal 4 al 10 settembre
SLIDE-5
“Una spiritualità centrata sul mistero del povero”
Al tempo di Gesù c’erano molte persone povere, oppresse, cieche, rifiutate; molte persone lebbrose, sofferenti non soltanto per le loro piaghe, ma anche per il disprezzo e il rifiuto della società. Erano “intoccabili”, toccarli rendeva impuri. La loro malattia era considerata una punizione data da Dio. Tutte queste persone erano escluse, chiuse nella loro tristezza, in sensi di colpa e in una immagine di se stessi spezzata. Non avevano né avvenire né speranza. Gesù è venuto a rivelare a ciascuno che è importante e amato da Dio. Questa è la buona novella.
Vi erano anche i ricchi, che detenevano potere. Erano soddisfatti di se stessi; erano realizzati, avevano privilegi e beni, si credevano benedetti da Dio. Due mondi separati da un muro: i ricchi che tendevano a disprezzare i poveri e questi ultimi che tendevano a chiudersi in questo rifiuto e nella loro tristezza.
(Jean Vanier, “Un’Arca per i poveri”)
“La buona novella”

Gesù invita i suoi discepoli a occupare l’ultimo posto, a non cercare il potere, anche se fosse per il bene, ma a servire come degli schiavi: «Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). «Dio rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili» (Lc 1,52), dice Maria nel suo Magnificat.
Gesù porta una visione completamente nuova. Dio non è più soltanto un essere buono e compassionevole, che veglia sui poveri e chiama i ricchi alla condivisione come, per esempio, già in Isaia:

Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono (Is 58,6-11).





“Gesù stesso diventa povero”

Gesù stesso diventa povero; il Verbo si fa carne, l’Onnipotente diventa un bambino indifeso che risveglia l’amore nei nostri cuori. Le sue parole, il suo modo di essere confondono tutti, soprattutto i potenti, che rifiutano di ascoltarlo; non lo accettano, cercano anche di farlo morire e infine lo consegnano al potere civile, il potere romano. Gesù è condannato a morte e muore nella più totale abiezione: tutti si beffano di lui. Il compassionevole diventa colui che ha bisogno di compassione, il povero. Gesù sovverte l’ordine stabilito: non si tratta più di “fare del bene” ai poveri, ma di scoprire nella relazione con lui e con loro che Dio è nascosto nel povero. Mediante le sue azioni, e la sua vulnerabilità assoluta, Gesù ci rivela che il povero e il debole hanno il potere di guarire e liberare.






“I due mondi di oggi”

I due mondi che esistevano al tempo di Gesù, esistono anche oggi in tutti i nostri paesi, nei nostri villaggi e nelle nostre città, e in ciascuno dei nostri cuori.
Il ricco è colui che crede di bastare a se stesso e non riconosce il proprio bisogno di amore e le necessità dell’altro. In ciascuno di noi vive un ricco. Esistono anche i ricchi di beni materiali e culturali, persino di beni spirituali, soddisfatti di se stessi, vivono nel lusso, chiusi nella ricchezza, nel potere e nei privilegi. Hanno abbondanza di quelle cose che però non soddisfano in profondità. Posseggono più del necessario e vogliono possedere sempre di più, intrappolati in un circolo vizioso di insoddisfazione, non riconosciuta, del cuore! Incapaci di comprendere la propria debolezza, disprezzano gli altri, soprattutto quelli che sono diversi o deboli.
Ed esistono sempre i poveri e gli esclusi, considerati incapaci di inserirsi nella società. Sono i mendicanti, i “senza fissa dimora”, gli immigrati, i disoccupati, le vittime di abuso, i malati di mente, le persone con una disabilità fisica o mentale; sono i vecchi abbandonati. Sono tutti coloro che soffrono di malnutrizione e di fame; sono tutti i rifugiati che fuggono dall’odio e dalla guerra. Tutti costoro sono prigionieri di un’immagine ferita di se stessi.
Oggi il messaggio di Gesù è lo stesso di sempre: egli è venuto per riunire i figli di Dio dispersi e dare loro la vita in abbondanza. Vuole abolire l’odio, i pregiudizi e le paure che separano le persone e i gruppi, creare in questo mondo diviso luoghi di unità, di riconciliazione e di pace, chiamando i ricchi alla condivisione e i poveri alla speranza.




“Una società competitiva”

Le nostre società occidentali – essendo società di consumo che spingono all’individualismo – sono competitive. Fin dalla scuola ai bambini si insegna ad essere i primi e a vincere per poter essere ammirati.
La competizione ha un aspetto positivo: sviluppa al massimo le energie e le capacità. Spinge a dare il meglio di sé. Ma essa ha anche degli aspetti negativi. Per uno che vince, quanti perdono, si scoraggiano e non riescono a sviluppare le proprie capacità? Incapaci di emergere, cadono sempre più giù nella mancanza di autostima. Coloro che hanno salito la scala della promozione sociale, tendono spesso a disprezzare coloro che non ci sono riusciti.
Anch’io facevo parte di questo mondo competitivo.
Poi ho incontrato Raphaël e Philippe in un manicomio vicino a Parigi, dove erano rinchiusi dietro a muri imponenti. Era un luogo lugubre. La prima cosa che ho scoperto vivendo con Raphaël e Philippe è stata la profondità della loro sofferenza. Col tempo ho realizzato come la vita comunitaria tra persone con disabilità mentale e persone venute per condividere la loro vita andasse controcorrente rispetto alla cultura corrente.
Poco tempo dopo l’inizio dell’Arca, ho scoperto una frase del vangelo di Luca, in cui Gesù dice:

Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato (Lc 14,12-14).






“La trasformazione del cuore”

Diventare amico di Raphaël e Philippe e vivere un’alleanza con loro, un patto sacro, ha implicato per me un grande cambiamento. Per educazione ero un uomo efficiente e rapido, che prendeva da solo le proprie decisioni. Ero uomo d’azione prima di essere uomo d’ascolto. In marina avevo colleghi, ma non veri amici. Essere amico, significa diventare vulnerabile, lasciare cadere le proprie maschere e le proprie barriere per accogliere l’altro in sé, così come è, con la sua bellezza e i suoi doni, la sua debolezza e le sue ferite interiori. Significa piangere quando piange, ridere quando ride. Avevo creato molte barriere attorno al mio cuore, per proteggere la mia vulnerabilità. All’Arca non si trattava più di “salire” di grado, diventando sempre più efficiente e riconosciuto, ma di “scendere”, di “perdere” il mio tempo nelle relazioni con persone con disabilità mentale, per costruire con loro una comunità, un luogo di comunione e di alleanza.
Dovevo imparare che cosa significasse amare davvero qualcuno, entrando in comunione con lui. Amare qualcuno è certamente voler fare qualcosa per lui, ma è soprattutto essergli presente per rivelargli la sua bellezza e il suo valore, e aiutarlo ad avere fiducia in se stesso.





“Diventare amico del povero”

A contatto con la fragilità e con la sofferenza delle persone con disabilità mentale, ricevendo la loro fiducia, sentivo nascere in me sorgenti nuove di tenerezza. Li amavo ed ero felice di stare con loro. Risvegliavano una parte del mio essere che fino a quel momento era stata sottosviluppata, atrofizzata. Mi aprivano un altro mondo, non più un mondo di forza e successo, di potere ed efficienza, ma del cuore, della vulnerabilità e della comunione. Mi conducevano su un cammino di guarigione e di unità interiore.
Diventare amico del povero è esigente. Ci àncora alla realtà della sofferenza. Impossibile fuggire nelle idee e nei sogni! Il richiamo del povero alla solidarietà ci obbliga a fare scelte, ad approfondire la nostra vita spirituale, a mettere l’amore al centro delle nostre vite e del quotidiano. Ci trasforma.

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