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NEWSLETTER n° 6 - 23 agosto 2017

AO210

LECTIO DIVINA

XXI Domenica del Tempo Ordinario / A


(Is 22,19-23; Sal 137/138,1-3.6.8; Rm 11,33-36; Mt 16,13-20)

Riconoscere la presenza di Cristo, Figlio del Dio vivente (Mt 16,16), che salva l’uomo dalla morte, non è un dono di natura. Nell’abitudine al consumo frenetico di beni, relazioni, esperienze, nel panico creato dal terrorismo islamico fondamentalista, nell’incertezza del futuro oscurato dalla crisi economica e dalla disoccupazione, solo il “tocco soprannaturale” di Dio Padre ci permette di vedere che la salvezza dell’uomo è in atto nonostante tutto.
Il “tocco” che la voce di Dio dà personalmente all’anima si consolida e dà frutto se il cristiano cammina con la Chiesa, in ascolto di Pietro e dei suoi successori.

Commento alle Letture
Nella Prima lettura, Isaia narra la caduta di Sebna, vicerè della casa di Davide, assetato di potere e conquistato dagli idoli di cultura egiziana. Dio stesso lo spoglia dei simboli di regalità e di potere, per rivestirne Eliakìm (in aramaico “alzato, risuscitato da Dio”). Sulle spalle di quest’ultimo porrà il privilegio e insieme il peso della responsabilità delle “chiavi” ovvero il dono di discernere e guidare le sorti della casa di Davide e degli abitanti di Gerusalemme nella storia. Eliakìm, prefigura di Pietro, e Gerusalemme, figura della Chiesa, anticipano nell’AT le caratteristiche future della Chiesa di Cristo: un popolo guidato da un “capo” prescelto da Dio, capace di mettersi a servizio della sua gente.

La presenza di una guida voluta dal Signore stesso e da Lui illuminata, offre ai cristiani la chiave di lettura per avvicinarsi agli “insondabili giudizi” e alle vie “inaccessibili” di Dio nella storia personale e comunitaria (Rm 11,33-36). L’immagine e somiglianza dell’uomo al Creatore di “tutte le cose” (v. 36) emerge sotto la superficie del peccato, degli errori, dei limiti, se viviamo una relazione con Lui nella preghiera, nella Messa, nei Sacramenti, nella lettura quotidiana di qualche passo, anche breve, della Bibbia.

Commento al Vangelo
Gesù conduce i discepoli a Cesarea di Filippo, in territorio pagano: i dodici sono lontani dalla loro cultura di provenienza, ma Cristo è con loro e qui avviene il riconoscimento della Sua reale identità da parte di Pietro. La natura umana può al massimo vedere in Gesù un grande profeta, la reincarnazione di Giovanni Battista, un uomo venuto per fare del bene… Solo Dio Padre può rivelare all’anima che Gesù è il Salvatore, Figlio del Dio vivente, di un Dio in relazione continua con l’uomo.
Simone, irruento, a volte “spaccone” e avventato nelle sue reazioni, è scelto per essere il primo a vedere il Messia nel Maestro Gesù: per questo diviene Kefa, Pietro, la pietra (kefa) sulla quale si comincerà a costruire la Chiesa cristiana.
Per noi, oggi, educati all’individualismo, alla libertà di scelta svincolata da qualunque valutazione morale, alla confusione tra ciò che è bene e ciò che è male, è difficile accettare delle guide, dei maestri: riconoscere, poi, che una guida umana possa ricevere le “chiavi” dell’interpretazione della vita direttamente dal Signore risulta soffocante, antiquato, adatto a persone insicure e remissive. Non ci piace sentirci “pecore” in un “gregge” guidato da un pastore: ci sentiamo immediatamente “pecoroni”; non ci piace tornare “bambini” che si lasciano afferrare con fiducia dalle mani del Salvatore. Coltiviamo più volentieri una relazione individuale e diretta con Dio, con Gesù, ma rifuggiamo l’appartenenza alla Chiesa che, con i suoi insegnamenti, toglie, secondo noi, spontaneità e respiro alla vita interiore.
Il Papa, che significa “padre”, e la Chiesa, non soffocano l’uomo: ciò che soffoca, procedendo nella sequela di Cristo, è la natura umana corrotta dal peccato perché, come Eliakìm e come Pietro, possiamo rialzarci, riemergere dalla tempesta.
La strada per la vittoria sul male è la croce, il dono totale di sé, ciascuno nella propria condizione storica e di vita: il brano del Vangelo di oggi è centrale perché da qui in poi (da Mt 16,21) Gesù inizierà a dirigersi fisicamente verso Gerusalemme, rivelando ai discepoli le sue caratteristiche di Messia rifiutato, vilipeso, torturato e ucciso. Il dono della vita, che conosce per tutti il passaggio misterioso del soffrire, è in vista della Vita eterna, della Vita dopo la morte. Le stesse cadute di Pietro, la sua ottusità, il suo tradimento sono “morti” necessarie per imparare a diffidare di sé e a scorgere la volontà di Dio con crescente chiarezza.
La frase finale del brano di oggi (v. 20) è un invito alla custodia della rivelazione divina: la missione di diffondere il messaggio di Cristo agli uomini è fatta anche di prudenza, di gradualità, come si maneggia un tesoro prezioso.

Commento francescano
Francesco amava la Chiesa e i suoi rappresentanti: più volte appare nei suoi scritti l’invito, fatto ai Frati, a rispettarli e riverirli perché rappresentanti di Cristo, deputati, nel caso dei “chierici” (i sacerdoti) a somministrare il Corpo e Sangue di Cristo. Sia lui sia Chiara invitano i membri dell’Ordine a promettere sempre obbedienza al Papa.
Nella biografia di Francesco di Ruggero di Wendover (FF 2278-2294) si narra dell’incontro fra il Santo e il papa Innocenzo III, dal quale si recò per ricevere l’approvazione dell’Ordine: di fronte all’aspetto “spregevole” del frate e alla lettura della “sua petizione, così ardua e impossibile”, il Papa invitò a Francesco ad andarsene e a ravvoltolarsi fra i porci, “a cui dovresti paragonarti più che agli uomini”. Cosa che Francesco prontamente fece. Di fronte a tanta umiltà, si aprirono gli occhi del Pontefice, che aveva pesato il frate con occhi umani. Innocenzo III si commosse e si dispiacque di averlo disprezzato: ne accettò la petizione e benedisse l’Ordine nascente.

Preghiera finale
O Padre e Creatore di tutte le cose, aiutaci a scavare sotto la superficie del nostro “io” superbo, indipendente, chiuso alla relazione con Te e con gli altri uomini. Aiuta i battezzati che hanno voltato le spalle alla Chiesa a riscoprire l’identità di figli di Dio, di membra di un corpo santo che soffre la loro mancanza. Mantienici fedeli al Santo Padre e agli insegnamenti di chi hai posto alla guida della Tua Chiesa. Te lo chiediamo per Cristo, Tuo Figlio e nostro Signore, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

Pensiero del giorno

dal 14 al 20 agosto
SLIDE-5

IMPARARE A PREGARE

(pensieri liberamente tratti da Dietrich Bonhoeffer, Imparare a pregare).

INSEGNACI A PREGARE
“Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11,1). Così i discepoli si rivolgevano a Gesù. In tal modo confessavano di non essere in grado, da soli, di pregare. Devono impararlo. “Imparare a pregare” ci suona contraddittorio: o il cuore è così traboccante che inizia a pregare da sé – diciamo – oppure non si imparerà mai. Si tratta tuttavia di un pericoloso errore, oggi certo ampiamente diffuso nella cristianità, per cui il cuore saprebbe pregare per natura. Scambiamo allora il desiderio, la speranza, il sospiro, il lamento, la gioia – tutte cose che il cuore può certamente fare da sé – con la preghiera. Così però scambiamo terra cielo, uomo e Dio. Pregare non significa semplicemente sfogare il cuore, ma trovare la via verso Dio e parlare con lui con cuore colmo o anche vuoto. Nessuno può riuscirci da solo; per questo ha bisogno di Gesù Cristo

PADRE NOSTRO
Incontriamo il linguaggio di Dio in Gesù Cristo nella sacra Scrittura. Se vogliamo pregare con certezza e gioia, la parola della sacra Scrittura dovrà essere la solida base della nostra preghiera. Qui sappiamo che Gesù Cristo, Parola di Dio, ci insegna a pregare. Le parole che vengono da Dio saranno i gradini salendo i quali giungiamo a lui.
Alla richiesta dei discepoli, “Signore, insegnaci a pregare!” (Lc 11,1), Gesù ha dato loro il Padre nostro (cf. Mt 6,9-13; Lc 11,2-4). In esso è contenuto tutto il pregare. Ciò che rientra nelle suppliche del Padre nostro è ben pregato, ciò che in esse non ha posto non è preghiera. Tutte le preghiere della sacra Scrittura sono riassunte nel Padre nostro, sono ricomprese nella sua ampiezza smisurata. Non sono dunque rese superflue dal Padre nostro, ma ne rappresentano la ricchezza inesauribile, come il Padre nostro ne è il coronamento e l’unità.

LA SOFFERENZA
Il Salterio (i salmi) ci insegna a presentarci nel modo giusto a Dio nelle diverse sofferenze che il mondo ci procura. Grave malattia e totale abbandono da parte di Dio e degli uomini, minaccia, persecuzione, prigionia e ogni miseria immaginabile sulla terra: tutto ciò è noto ai salmi. Essi non negano la sofferenza, non si illudono al riguardo con pie parole, ma la mantengono come dura tentazione della fede, anzi talvolta non vedono altro al di là della sofferenza e tutti se ne lamentano con Dio.
Nei salmi non si mostra una troppo rapida rassegnazione alla sofferenza. Si passa sempre attraverso combattimento, angoscia, dubbio. Viene scossa la certezza nella giustizia di Dio, che lascia che i devoti siano colpiti dalla sventura, mentre permette agli empi di sfuggirla liberamente, e si mette in dubbio persino la volontà buona e misericordiosa di Dio. Troppo incomprensibile è il suo agire, ma anche nella più profonda disperazione Dio resta l’unico interlocutore. Non si attende aiuto dagli uomini né il sofferente perde di vista, nella sua autocommiserazione, l’origine e il fine di ogni miseria, ossia Dio. Egli combatte contro Dio per Dio. Al Dio irato viene rinfacciata infinite volte la sua promessa, la sua precedente benevolenza, la gloria del suo nome tra gli uomini.
Se sono colpevole, perché Dio non perdona? Se sono innocente, perché non pone fine al tormento e non dimostra la mia innocenza ai nemici? A tutte queste domande non vi è qui una risposta di tipo teorico, come neppure nel Nuovo Testamento. L’unica reale risposta si chiama Gesù Cristo e questa risposta nei salmi viene già implorata. Tutti questi sono infatti accomunati dall’addossare su Dio ogni pena e tentazione: “Non ce la facciamo più a sopportarla, prendila da noi e portala su di te, tu soltanto puoi averla vinta con la sofferenza”; questo è lo scopo di tutti i salmi di lamentazione. Essi invocano colui il quale si è fatto carico su di sé della malattia e ha sopportato tutte le nostre infermità, Gesù Cristo; lo predicano come l’unico ausilio nella sofferenza, perché in lui Dio è presso di noi.
Gesù Cristo non è soltanto il fine della nostra preghiera, bensì egli è anche compresente nel nostro stesso pregare. Egli, che ha sopportato ogni miseria, l’ha condotta di fronte a Dio e per amore nostro ha pregato in nome di Dio. Ora sappiamo che non c’è più sofferenza sulla terra in cui Cristo non sia con noi, soffrendo e pregando insieme a noi come l’unico che ci può portare soccorso.

STA’ IN SILENZIO DAVANTI AL SIGNORE E SPERA IN LUI
È volontà di Dio che coloro che camminano nei suoi comandamenti stiano bene. Non è segno di una fede forte e matura, se questo enunciato ci causa imbarazzo, se diciamo che Dio ha in serbo per noi cose più grandi che preoccuparsi del nostro benessere. Ci sono cristiani che vogliono essere più devoti di Dio stesso; parlano volentieri di lotta, abnegazione, sofferenza e croce, ma provano quasi un imbarazzo per il fatto che la sacra Scrittura non soltanto possa parlare di questo, ma tratti addirittura assai spesso della felicità dei devoti, del benessere dei giusti. Dicono allora che ciò sarebbe veterotestamentario e superato. La prima ragione del loro imbarazzo però risiede nel fatto che il loro cuore è troppo angusto per cogliere tutta la benevolenza di Dio, troppo angusto per onorare Dio anche nell’abbondanza dei doni terreni che egli consente che ottenere a coloro il quali vivono nella sua legge. Essi vogliono ammaestrare la sacra Scrittura e si privano con ciò della piena gioia della loro condizione di cristiani, negando a Dio il ringraziamento dovuto per la sua grande benevolenza.
Quando il nostro salmo promette benessere, felicità e beatitudine a coloro che vivono nella legge di Dio intende che ciò sia preso alla lettera. Naturalmente può parlare in tal modo soltanto chi si accontenta bei doni di Dio come essi giungono, finché gli permettono anche solo continuare a vivere. Soltanto al cuore soddisfatto tutto andrà sempre bene: “quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci”.
Beati non perché non abbiamo difetto, ma perché ricevono tutto dalla mano di Dio. “Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui”(Sal 37, 7).

LA VIA DI DIO
Le vie di Dio sono le vie che egli stesso ha percorso e che noi ora dobbiamo percorrere con lui. Dio non ci lascia percorrere alcuna via che egli stesso non abbia percorso e su cui non ci preceda. È il cammino spianato da Dio e da Dio protetto quello su cui egli ci chiama; pertanto esso è davvero la sua via.
Con Dio non si resta fermi, ma si percorre una via. O si procede oppure non si è con Dio. Dio conosce l’intero cammino, noi conosciamo soltanto il passo successivo e il fine ultimo. Non c’è sosta: ogni giorno, ogni ora si va avanti: La vita di chi ha posto il suo passo su questa via è diventata un viaggio. Si va per pascoli erbosi e per la valle oscura, ma il Signore condurrà sempre sul giusto cammino (cf. Sal 121, 3) e “non lascerà vacillare il tuo piede” (Sal 121, 3).

LA PAROLA DI DIO RIVENDICA IL MIO TEMPO
Non esiste fermata: ogni dono, Ogni conoscenza che ricevo mi spinge soltanto più a fondo nella parola di Dio. Per la parola di Dio ho bisogno di tempo, per comprendere bene i precetti di Dio devo spesso riflettere a lungo Sulla sua parola.
La parola di Dio rivendica il mio tempo, Dio stesso è entrato nel tempo e ora vuole che anch’io gli dia il mio tempo. L’essere cristiano non è questione di un momento, ma necessita di tempo. Dio ci ha dato la Scrittura, da cui noi dobbiamo conoscere la sua volontà;
la Scrittura vuole essere letta e meditata, ogni giorno di nuovo, la parola di Dio non è una somma di eterni enunciati universali che potrei aver presenti in ogni momento, ma è ogni giorno nuova e rivolta a me nella ricchezza infinita dell’interpretazione.

LA BENEVOLENZA DI DIO
“Poiché la tua grazia vale più della vita” (Sal 63, 4): “la tua benevolenza vale più della vita” è il grido di giubilo dei miseri e degli abbandonati, di chi è in pena e. di chi porta un peso oberante; è l’urlo di desiderio dei malati e degli oppressi; è il canto di lode dei disoccupati e degli affamati nelle grandi città; è la preghiera di ringraziamento dei pubblicani e delle prostitute, dei peccatori pubblici e privati.
Se vogliamo comprendere la benevolenza come dono di Dio, allora dobbiamo intenderla come responsabilità verso i fratelli. È già molto se abbiamo capito che la benevolenza di Dio ci conduce in una battaglia, che non è qualcosa che riceviamo e poi semplicemente abbiamo, possediamo, cosicché continuiamo a vivere un po’ più felici, un po’ più ricchi, ma in sostanza immutati.
Immaginiamo che proprio nel momento in cui noi ringraziamo Dio per la sua benevolenza nei nostri confronti, suonino alla porta, e vi sia là qualcuno che volentieri vorrebbe anch’egli ringraziare Dio per i doni più miseri, ma a cui questi sono stati negati e che con i suoi figli patisce la fame e va a letto amareggiato. Che ne sarà in un simile momento della nostra preghiera di ringraziamento? Vorremo forse dire che Dio è con noi misericordioso e con lui adirato, oppure che il fatto di avere ancora qualcosa da mangiare dimostra che abbiamo ottenuto presso Dio una posizione speciale e favorita? Ciao Dio misericordioso ci guardi dalla tentazione di una simile riconoscenza! Egli ci conduca alla vera comprensione della sua benevolenza.
Dio ci chiama alla responsabilità e noi rifiutiamo, perché siamo attaccati più noi stessi che a Dio!
Ma ora avviene il miracolo più grande che il mondo conosca. Quando ci siamo separati da Dio, in questo luogo la sua benevolenza ci segue e ci si rivela di nuovo come la promessa eterna di Dio in Gesù Cristo, oltre ogni colpa, oltre ogni vita. Soltanto colui che nel buio della colpa, dell’infedeltà, dell’ostilità nei confronti di Dio si sente toccato da quell’amore che mai finisce, che tutto perdona e che, oltre ogni miseria, indica il mondo di Dio, questi conosce veramente e pienamente cosa sia la benevolenza di Dio.

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