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NEWSLETTER n° 53 - 26 luglio 2018

  • LETTERA DELLA TENEREZZA DI DIO - Jean Vanier
  • LECTIO DIVINA - Domenica 29 Luglio 2018 - XVII T.O. / B

Lettera della tenerezza di Dio

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LA VIA DISCENDENTE

Quando Gesù ci dice: «Seguimi», ci invita a prendere la via discendente ed è forse proprio in questo che siamo in contraddizione con lo spirito del mondo. La battaglia più grande riguarda il bisogno di promozione, il bisogno di avere un posto importante e può anche infiltrarsi all'interno della Chiesa e di una comunità perché è un bisogno iscritto in ognuno di noi. Si può fare il bene per ricercare la gloria umana; è la battaglia fondamentale tra la grazia e la psicologia umana.
Gesù è venuto a portare un nuovo ordine di comunione, alla luce e a immagine di Dio. Le società umane sono costruite su una gerarchia che scarta e disprezza chi è più in basso, i deboli e gli emarginati. Ecco perché Gesù si rivolge per primo a loro, come a quella donna di Samaria.
Gesù si rivela pienamente soltanto a colui che è in basso. Lui che è di condizione divina, ci mostra la strada. Fratel Charles diceva che nessuno potrebbe andare più in basso di dove è andato Gesù, perché si è identificato con i più piccoli, con i più poveri e i più feriti. Ed è a partire di là che ricostruisce l’universo edificando il suo corpo che è la Chiesa.

IL POVERO DISTURBA

Sappiamo quanto sia grande la lotta all’interno di noi stessi, perché la via discendente ci fa incontrare il povero e il povero ci disturba. Infatti, non si tratta di fare qualcosa per lui ma di entrare in relazione con lui e non sappiamo dove ci porterà tutto questo, perché ci chiederà qualcosa che non vorremmo. Vivere un’alleanza con il povero significa mettersi in comunione con lui e diventare vulnerabili, significa perdere la propria libertà per acquistare una nuova libertà, quella dell’amore. Il povero rimane pericoloso; chiama al cambiamento, ad una trasformazione, ad una conversione radicale.
Mi ricordo che un giorno a Parigi sono stato avvicinato da una donna che aveva l’aria fragile e ferita. Mi chiedeva dieci franchi. Ho voluto sapere il perché e mi rispose che era appena uscita dall'ospedale psichiatrico e che era malata. Abbiamo iniziato a parlare e a un certo punto mi sono reso conto che se continuavo sarebbe diventato troppo pericoloso perché di certo l’avrei invitata a pranzo e non avrei più potuto lasciarla per la strada. E ho sentito salire dentro di me ogni sorta di potenza che mi diceva di fermarmi. Le ho dato dieci franchi e sono andato all'appuntamento che avevo.
Se ci si avvicina troppo al povero si perde la propria libertà personale. A un certo punto si arriva ad una svolta senza ritorno che cambia la nostra vita. Mi sono reso conto che facevo esattamente come il prete e come il levita della storia del buon samaritano che hanno continuato la loro strada fino a Gerico. Abbiamo fatto tutti questa esperienza.

LA COMUNIONE È MOLTO DIVERSA DALLA DIVERSITÀ

Si può dare e fare molto per gli altri, ma mettersi in comunione significa fermarsi ed entrare in relazione, significa guardare negli occhi e dare la mano, in un dono reciproco, ricevendo e donando. La generosità implica solo il dono senza esigenze diverse dal tempo, dal denaro o dalle competenze, spesso dati per raccogliere gloria. Ma entrare in comunione significa diventare vulnerabili, significa far cadere le barriere e le maschere, compresa quella della generosità e significa mostrarsi così come si è.
Entrare in comunione è riconoscere che si ha bisogno dell’altro, come Gesù, stanco, che chiede alla samaritana di dargli da bere. Gesù non le chiede di cambiare, le dice semplicemente che ha bisogno di lei, la incontra in profondità, entra in comunione con lei, entra in una relazione dove si dà e si riceve, dove ci si ferma e si ascolta. È più facile dare che fermarsi, soprattutto quando si è angosciati. Certo, il povero ha bisogno di soldi ma ha soprattutto bisogno, come il bambino, di incontrare un amico felice di essere con lui.

SCENDERE PER POTER COMUNICARE

La via discendente è la via della risurrezione ma è molto pericolosa perché ci fa perdere qualcosa. Implica anche di scendere dentro di noi stessi ed è ancora più difficile scoprire le proprie ferite e le proprie fragilità. La via discendente ci fa scoprire progressivamente, vivendo con il povero, la nostra povertà, questo mondo di angoscia che abbiamo dentro, la nostra durezza, la nostra capacità di fare anche del male.
Io stesso ho sperimentato davanti a certe persone quest’ondata di potenze violente, nascoste nel più profondo di me ma molto presenti. Davanti all'intollerabile mi sono sentito capace di far male, di ferire il povero. So bene ce c’è un lupo alla porta della mia ferita e che può risvegliarsi. Non si può essere tanto in collera con i torturatori delle prigioni o dei campi di concentramento quando si scoprono, dentro di se, le proprie capacità di far male a qualcuno e le proprie ferite. Questa via discendente allora è dolorosa ma è la via della salvezza e della guarigione profonda.

LO SPIRITO SANTO PENETRA NELLA NOSTRA FRAGILITÀ

Sulla via discendente, noi lasciamo che lo Spirito Santo penetri nelle nostre fragilità, nel nostro corpo e nella nostra psiche ferita e a poco a poco facciamo l’esperienza della risurrezione. Se crediamo di essere perfetti, saremo come il fratello maggiore del figlio prodigo, che giudica tutto. Ma il figliol prodigo non giudica perché ha sperimentato il perdono. Si è lasciato avvolgere dalle braccia di suo padre e si è sentito amato così com'era, fin nelle sue ferite e nelle sue fragilità. E al termine di questa via discendente si è rialzato per non giudicare più. Per diventare uomini e donne di compassione, che non giudicano e non condannano ma perdonano, dobbiamo prendere questa via discendente che ci rinnova dall'interno.

DIO È NEL CUORE DI COLUI CHE SOFFRE

La saggezza della via discendente consiste nell’accogliere le nostre povertà, le nostre ferite e quelle degli altri. Non si culla in illusioni, non ha paura di toccare la realtà e non pretende che tutto sia perfetto o che tutto potrebbe diventarlo. No, la saggezza della via discendente ci rivela semplicemente che Dio risiede nel cuore della nostra povertà e della nostra fragilità.
Nel libro Anna e Mister Good, Anna racconta che in tutta la sua vita ha cercato di fuggire il vuoto che sentiva dentro di sé, attraverso la musica, le parole, le attività di ogni genere fino al giorno in cui ha scoperto che Dio era nascosto in questo vuoto. Dio è nascosto nel povero.
È il mistero del Verbo incarnato, della luce discesa nel fango per diventare accessibile a tutti, nella comunione e nell’amore. È per questo che Gesù è diventato un bambino, morto in croce ed ora si manifesta a noi attraverso il volto del povero e attraverso la nostra povertà.

LA LETTERA DELLA TENEREZZA DI DIO

Rendete piena la mia gioia.
Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo,
se c’è conforto derivante dalla carità,
se c’è qualche comunanza di spirito,
se ci sono sentimenti di amore e di compassione,
rendete piena la mia gioia
con l’unione dei vostri spiriti,
con la stessa carità,
con i medesimi sentimenti.
Non fate nulla per spirito di rivalità
o per vanagloria,
ma ciascuno di voi, con tutta umiltà,
consideri gli altri superiori a se stesso,
senza cercare il proprio interesse,
ma anche quello degli altri.
(Fil 2,1-5)

Paolo scrive questa lettera alla prima comunità cristiana d’Europa, ma avrebbe potuto scriverla a noi qui all'Arca. Di fatto, è molto più di una lettera, è una parola di Dio attraverso la quale lo Spirito Santo parla a noi, oggi. È la lettera della tenerezza.
Dobbiamo mettere tutte le nostre energie nel vivere in unità gli uni con gli altri non avendo che una sola anima, un solo cuore e un solo spirito. E non dobbiamo lasciarci prendere dalla vanagloria che fa sì che ognuno si metta al primo posto; non devono esserci dispute, mormorazioni, dobbiamo cercare sempre gli interessi degli altri piuttosto che i nostri e dobbiamo considerare gli altri migliori di noi stessi.

(Jean Vanier, “Lettera della tenerezza di Dio”)

LECTIO DIVINA

Domenica 29 Luglio 2018 - XVII T.O. / B
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2Re 4,42-44; dal Sal 144(145); Ef 4,1-6; Gv 6,1-15




A partire da questa XVII domenica del T.O. fino alla XXI, il lezionario interrompe la lettura del Vangelo di Marco e lo sostituisce con il capitolo VI del Vangelo di Giovanni. Non dobbiamo però dimenticare il cammino che con Marco stiamo compiendo: Gesù sta educando la fede dei suoi discepoli, perché comprendano che la missione che egli affida loro è l’annuncio di ciò che Egli continua a fare con loro e attraverso loro, per l’uomo lungo il corso della storia.
Il racconto della “moltiplicazione” dei pani si inserisce precisamente in questo momento: Gesù vedendo la folla che lo cerca, “come pecore senza pastore”, si commuove interiormente e dona il pane di cui hanno bisogno, ma quale pane?

Testo e Commento alle letture

Dal secondo libro dei Re (4,42-44)



In quei giorni, da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».
Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.

La prima lettura tratta dal libro dei Re ci presenta il profeta Eliseo che attraverso la sua “frequentazione” con i progetti di Dio e con la sua onnipotenza, dà la “granitica” sicurezza che i problemi umani sono sempre risolvibili: “nulla è impossibile a Dio” risuona più volte nella Bibbia. Eliseo vive di questa affermazione e la traduce in vita per sé e per gli altri.
La regione di Galgala è affetta da una grave carestia. Arriva dal profeta un uomo che porta in dono le primizie per l’offerta a Dio, “venti pani d’orzo e grano novello” (v.42b). Eliseo non ha dubbi: “dallo da mangiare alla gente” (v.42b).
In forza della ragione, ma anche della matematica, il servitore avanza dei dubbi: “come posso mettere questo davanti a cento persone?” (v.43)
Ma il comando di Eliseo risuona la seconda volta senza esitazione, accompagnato dalla motivazione che spinge ad alzare lo sguardo dalla logica umana a quella divina: “poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare” (v 43b).
Di fatto le cento persone “mangiarono e ne fecero avanzare” (v.44). L’elemento importante e decisivo arriva alla fine: “secondo la parola del Signore” (v.44b).
Era necessario che qualcuno ci credesse, che lo dicesse e convincesse a fare gli altri. Questa è la vocazione del profeta.

Dalla lettera di San Paolo apostolo agli Efesini (4,1-6)

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell'amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.

In questa domenica incomincia la seconda parte della lettera agli Efesini, quella dedicata all'esortazione “Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto” (v.1).
Paolo esordisce ricordando la sua condizione di prigioniero a causa del Vangelo che ha annunciato, trascurando la propria incolumità. Li esorta a comportarsi in modo degno della loro nuova dignità, a prendere coscienza del dono che hanno ricevuto con il Battesimo. Ricorda loro che devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: “con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità” (v.2), che hanno il loro culmine nell’amore fraterno (agape), che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri. Tutto questo devono e dobbiamo tenere nel cuore, l’elemento fondamentale per eccellenza di ogni comunità, famiglia, parrocchia è: l’impegno a mantenere l’unità, a vivere la pace.Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (v. 4-6). Questi ultimi versetti suonano un po’ come un inno, forse lo è stato realmente nelle prime comunità; ma quello a cui dobbiamo porre attenzione è l’accento sull'unità della comunità che si fonda su altre tre unità: quello del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quello della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, quello di ritrovare in se stessi quella figliolanza che attraverso il Battesimo nel Figlio ognuno di noi riceve.

Testo e Commento al Vangelo

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,1-15)

In quel tempo, Gesù passò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Come già abbiamo accennato all'inizio di questa lectio, dobbiamo porre attenzione alla pedagogia della fede a cui Gesù vuole condurre i suoi discepoli.
Gesù stesso è il dono del Padre per l’uomo, per noi, per me. Aprirsi ad accogliere Lui, entrare in relazione con Lui, vivere di Lui è l’esperienza personale che ogni discepolo, in tutti i tempi, è invitato a fare, non accontentandosi di rimanere “anonimo” dentro la folla.
Tutto inizia dal fatto che “Gesù passò all’altra riva e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i
segni che compiva sugli infermi” (v. 2), ma cosa comprendeva? Lo seguiva, ma perché?
E’ come se Gesù volesse far rivivere alla folla l’esperienza del popolo, come quando Mosè, in nome di Dio provvedeva ai suoi bisogni (Num 1,1)… ma ormai tutto si fa nuovo.
Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli” (v.3); il monte era il luogo dell’esperienza di Mosè con Dio, adesso Gesù la condivide con i suoi discepoli. Viene sottolineato che era vicina la Pasqua, cioè la festa della memoria viva dell’esperienza di Dio che libera il popolo, lo nutre, lo ama. E’ la festa del pasto comune, della comunità che rinasce.
Questo brano evangelico sovrabbonda di particolari, che andrebbero tutti sottolineati: “Gesù, alzàti gli occhi, vide…”(v.5). Se Gesù come abbiamo detto è salito sul monte, avrebbe dovuto abbassare gli occhi per vedere sotto di sé la folla che si accostava a Lui, e invece li alza: deve guardare oltre i discepoli, in un certo senso deve allargare il suo sguardo, guardare in alto per vedere la folla come la guarda Dio Padre stesso.
Gesù “tenta” Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (v.5).
Il Signore sa bene cosa sta per compiere, è un’opera che ha una logica nuova, radicalmente diversa da quella che muove l’agire umano. La risposta di Filippo, come a volte la nostra risposta, rimane totalmente all’interno della logica del “comprare”, in termini aritmetici ed economici: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (v.7).
Ed è qui che inizia il dinamismo dello stupore evangelico: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci” (v.9). Un ragazzo che “tira” per la tunica Andrea e gli mostra la sua “merenda”. Una merenda da condividere con una folla immensa e affamata. Quanto è bella l’ingenuità dei fanciulli che spiazza la razionalità degli adulti!
Dio ha ancora bisogno della beata incoscienza degli adolescenti. Il problema di noi “adulti” è quello di smarrire il sogno, di essere talmente realisti da diventare aridi. Dio ama il gesto ingenuo e straordinario del ragazzo e sfama la folla. Il Vangelo non punta a realizzare una condivisione, come promessa e progetto volontaristico per i poveri; per quello infatti esistono le ONG. Non punta a realizzare una moltiplicazione dei beni materiali, ma a dare un “senso” a quei beni: essi sono “sacramenti” di gioia e di comunione.
L’evangelista riassume l’agire di Gesù in tre verbi: “prese… rese grazie.. distribuì” (v.11); tre verbi che, se li incarniamo nella nostra vita quotidiana, possono fare di ogni vita un Vangelo: accogliere, rendere grazie, donare.
Sfatiamo un “mito”, il Vangelo non parla di moltiplicazione, ma di DISTRIBUZIONE, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuiscono non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano.
Come avvengono certi miracoli non lo sapremo mai o meglio avvengono quando a vincere non è il risultato di calcoli umani ma è la legge della generosità e dell’amore. La Parola di Dio quando viene condivisa non può che diventare occasione di agape e di fraternità che prendono corpo espressamente nella consumazione di un pasto insieme. Infatti come uno vive i pasti, così vive la preghiera. Non ci resta che entrare nel clima della carità, che davvero diventerà pietra fondamentale per la civiltà dell’amore, contro ogni intolleranza e spregio della dignità della persona umana. Compassione, condivisione, Eucarestia, è il cammino che Gesù ci indica, che ci porta ad affrontare con gli altri i bisogni di questo mondo, ma che ci conduce oltre la logica di questo mondo, perché si insegna la logica che parte da Dio Padre.

Commento Patristico

Sant'Agostino commentava così il nostro brano evangelico: “Fu operato un miracolo grande, saziando con cinque pani e due pesci cinquemila uomini e potendo riempire dodici ceste di pezzi avanzati. Grande il miracolo, ma esso non ci meraviglia molto se consideriamo chi l'ha compiuto. Ha moltiplicato i cinque pani tra le mani di coloro che li dividevano colui che moltiplica i semi che germinano sulla terra, tanto che si gettano pochi granelli e si riempiono i granai. Ma, poiché lo ripete ogni anno, nessuno se ne stupisce. Non è la mancanza di risalto nell'evento a togliere la meraviglia, ma la continuità. D'altra parte, il Signore, quando operava di queste cose, si esprimeva, per chi stava ad intenderlo, non solo a parole, ma anche attraverso gli stessi miracoli. I cinque pani significano i cinque Libri della Legge di Mosè. La Legge antica è orzo rispetto al grano evangelico. In quei Libri si contengono grandi misteri del Cristo. Pertanto egli stesso affermò: Se credeste a Mosè, credereste anche a me; infatti egli ha scritto di me. Ma come nell'orzo l'interno è nascosto sotto la pula, così il Cristo si cela sotto il velo dei misteri della Legge”.

Commento francescano

Nel processo di canonizzazione troviamo la testimonianza di sr. Cecilia di Gualtieri che racconta che in monastero non c’era che un solo pane, e che lei non sapeva come sfamare le 50 sorelle e la comunità dei frati che le aiutavano. Santa Chiara ordina di dare ai frati metà pane e il resto di dividerlo: “Allora disse epsa testimonia alla predicta madonna Chiara: ad ciò che de questo se ne facessero cinquanta lesche, saria necessario quello miraculo del Signore, de cinque pani et doi pesci. Ma epsa madonna Chiara li disse: va et fa come io te ho dicto. Et così el Signore moltiplicò quello pane per tale modo, che ne fece cinquanta lesche bone et grande, come sancta Chiara li haveva comandato” (FF 3039).
Notiamo che in questo racconto, come d’altra parte in quelli evangelici, la moltiplicazione avviene per divisione: è la dinamica di condivisione che rende il pane “spezzato”, “diviso”, un pane che basta e sovrabbonda per tutti. E’ un pane di povertà, in senso letterale. Dal momento che stando al processo il pane a San Damiano non si produceva ma veniva dall'elemosina: è il pane che Dio dona attraverso la sua provvidenza.

Orazione finale

Signore Gesù, mia vita, mio tutto, tu mi chiedi di dare gratuitamente quanto gratuitamente mi hai donato. Aiutami a condividere con gli altri i doni ricevuti nello spirito del dialogo e dell'accoglienza reciproca. Mi affido a te perché sia vigile e responsabile nella lettura dei segni del tempo e testimoni il primato del Padre nel mio lavoro quotidiano e nei rapporti familiari e sociali. Amen (Carlo Maria Martini).
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