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NEWSLETTER n° 14 - 17 ottobre 2017

LECTIO DIVINA

22 ottobre 2017
XXIX Domenica del Tempo Ordinario / A
AO290

Is 45,1.4-6; Sal 95/96; 1 Ts 1,1-5b; Mt 22,15-21


“È lecito o no pagare il tributo a Cesare?” (Mt 22,17). E’ la domanda ‘tranello’ che gli erodiani fanno a Gesù e che ci riporta il Vangelo di Matteo: ma quello che è di Cesare, Dio non lo pretende per sé. È la responsabilità nella storia che fa impegnare i cristiani di ogni tempo per il bene comune e per la promozione della giustizia e della pace.
La Parola di questa domenica vuole farci anche comprendere che c’è un di più: solo a Dio si deve dare tutta la nostra persona, Lui ci ha scelti, è sua l’iniziativa: “Io sono il Signore, non ce n’è altri” (Is 45,1.6) afferma la prima lettura. E Dio ci sceglie perché ci ama: nella seconda lettura Paolo lo ricorda ai Tessalonicesi, aggiungendo che questo amore deve essere assunto dalla nostra libertà e fatto fruttificare mediante una fede operosa, una carità che accetta la fatica, una speranza che resta salda. I doni di Dio vanno seminati nella storia con l’atteggiamento di chi sa discernere tra ciò che spetta a Dio e ciò che spetta agli uomini.

Commento alle letture

Nella prima lettura, il profeta rivela: Ciro, re di Persia, un re pagano, uno che non conosce il Signore, è chiamato “eletto” (Is 45,1.4). Dio si presenta come un ‘folle’ innamorato della sua creatura. Ciro, infatti, è scelto da Dio sebbene lui non sappia neppure della sua esistenza. Questa ‘ignoranza’ di Ciro è ciò di cui Dio si serve per salvare il suo popolo, investendo il re persiano del suo Spirito: afferma così che l’iniziativa è Sua e sua è la signoria sulla storia: “Io sono il Signore non c’è alcun altro fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci”. La chiamata di Dio è per il servizio, la gloria è conseguenza dell’aver servito fedelmente il Signore.
Nella seconda lettura, Paolo rende grazie per l’opera compiuta da Dio alla Chiesa di Tessalonica: “Sappiamo bene, fratelli amati da Dio che siete stati scelti da Lui” (1,4). Come il mandato affidato al re di Persia, Paolo riconosce ai cristiani di Tessalonica, provenienti dal paganesimo, la stessa ‘elezione’ che ha la sua sorgente nell’amore gratuito di Dio che salva: Dio sceglie non già in virtù dei meriti particolari ma per pura grazia.


Commento al Vangelo

Nel brano evangelico di questa Domenica, gli ostili interlocutori di Gesù sanno già che cosa Egli pensa di se stesso e sanno anche che la folla lo considera un “profeta”, cioè un inviato da Dio.
Essi, però, come hanno già fatto con il Battista, non gli credono; anzi lo vogliono arrestare. Ma devono avere motivi validi per farlo…… Ecco perciò che “cercano di coglierlo in fallo in qualche sua parola” (22,15). Per questo studiano bene il loro piano. Matteo ci dice che “i farisei se ne andarono e tennero consiglio…” (22,15), decisi ad andare fino in fondo contro di Lui. Lo scopo è quello di farlo morire.
Ma di fronte alla loro precisa domanda di “pagare o no il tributo a Cesare”, la risposta di Gesù è immediata: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Con ciò Gesù allude non ad un semplice ‘dare’ quanto piuttosto ad un ‘restituire’: restituite a Cesare quel che è di Cesare ma soprattutto restituite voi stessi a Dio, perché siete fatti a Sua immagine e somiglianza e gli appartenete. Gesù vuole insegnare loro che ‘dare a Dio ciò che è di Dio’ significa vivere fino in fondo la sua volontà e accogliere Colui che Egli ha mandato.

Commento francescano

Nell’Ammonizione XI, san Francesco allude alla pericope evangelica proposta in questa Domenica. Francesco parla dell’atteggiamento che il ‘servo di Dio’ può assumere nei confronti del peccato del fratello e pone l’accento sull’antitesi tra il peccato di appropriazione e il vivere senza nulla di proprio in relazione al peccato altrui:
“Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed è beato perché non gli rimane nulla, e rende a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio (FF 160).
Forma triste di appropriazione quella dell’ira e del turbamento per il peccato del fratello! Colui che vive senza nulla di proprio risponde con la forza della carità.

Preghiera conclusiva

O Padre, a te obbedisce ogni creatura nel misterioso intrecciarsi delle libere volontà degli uomini; fa' che nessuno di noi abusi del suo potere, ma ogni autorità serva al bene di tutti, secondo lo Spirito e la parola del tuo Figlio, e l'umanità intera riconosca a te solo come unico Dio. Per Cristo nostro Signore.

Pensiero del giorno

dal 9 al 15 ottobre

Testo tratto dalla rivista Panorama
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ANDRÒ IN PACE

« PRIGIONIERO DEL MIO CORPO
E DELLE MIE SOFFERENZE
ECCO PERCHÉ HO DECISO COMUNQUE
DI SOPPORTARE TUTTO FINO ALLA FINE »
IL TESTAMENTO GIOIOSO DI UN SACERDOTE

di Padre Modesto Paris

Mancano poche ore al mio intervento di tracheotomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L’alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato.
Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali.
I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L’ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.
Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull’esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l’ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e « pazzie » nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: « Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo ». Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L’unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.



Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. « L’aquilone prende il volo solo con il vento contrario ». In questi mesi l’ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare.
La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice.
Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L’attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco.



Mi hanno messo un «rubinetto» nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo. Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant’Agostino cito spesso una frase: « È meglio aver meno desideri che avere più cose ». E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l’una poi l’altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all’ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant’Agostino scrive: « Ama, e fa’ quello che vuoi ». Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato. Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l’hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le nove di mattino. Proprio il giorno e l’ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere.



L’anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d’adozione, come me.
Mi parla di una ragazza che ha assistito trent’anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio.
Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.
Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: « Io sono felice così ».



Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell’intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo.
Quanto è vera la frase « la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare ». L’ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone.
La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla « bindella a zapar stece », vicino alla sega a nastro per raccoglier le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre.
A 12 anni la chiamata. Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l’ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia madre che, in quell’occasione mi disse: « No nir fora parché se vene fora le come moris en auter». Voleva dire: « Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro ». Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo.
Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C’è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sula testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c’era la parola « per sempre ». E così è stato. E così sia.

L’AQUILONE PRENDE IL VOLO SOLO CON IL VENTO CONTRARIO

«Ora che posso solo sognare ad occhi aperti e col cuore che batte capisco che la vita non è con i piedi per terra che ti obbligano a pensare solo a quello che vedi perché in questo modo ti perdi il bello della vita con la “V” maiuscola, pertanto ringrazio il Signore che mi ha regalato questa SLA…vina» sono le ultime parole scritte da padre Modesto Paris - morto nella notte tra il 30 e il 31 maggio nell'ospedale “Villa Scassi” a Genova - sulla sua lavagnetta elettronica retta dal fratello Andrea che è rimasto al suo fianco nelle ultime settimane, è stato il suo testamento spirituale ai suoi ragazzi, ai giovani del movimento Rangers da lui fondato nel 1984 al Santuario della Madonnetta a Genova, agli amici di una vita intera fatta di gioia ma anche di sofferenza.

«Soffro per chi mi guarda da povero poveretto. Mai avrei pensato che questo mondo di invalidi vivesse la vita con una pienezza tale da far invidia anche a un calciatore o a uno che dalla sua vita ha avuto tutto ma che poi vede andare tutto in fumo».
Infatti il suo messaggio è sempre stato di speranza. «In camera mia - ha scritto nelle ultime ore - i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E per questo ho continuato a volare».

IL VENTO E L’AQUILONE

Più ascolto e leggo la Parola di Dio, più ne resto affascinato. Mi ha aiutato ad incontrare e conoscere un Gesù convincente. Così hanno anche fatto alcune persone, per me dei fari, perché erano costantemente Gesù: di notte, di giorno, nella buona e nella cattiva vita, nella salute e nella non salute… Non c’è nessuno scandalo e nessun guaio che mi abbia fatto mettere in discussione l’incontro con lui. Ma mi chiedo: come mai la Chiesa – che siamo noi – che possiede il dono inestimabile di Gesù, non fa più affari con i giovani? Usando un’analogia, mi sono dato una risposta. Non basta scrivere panetteria sull’insegna di un negozio per vendere il pane: se non è buono, il giorno dopo non ci torno più e lo compro in un’altra bottega.
E allora chi ci impedisce di diventare semplicemente cristiani? Chi ci impedisce di essere noi disponibili, al di là degli esempi che ci sono o non ci sono intorno a noi? Chi ci impedisce di preferire la luce piuttosto che il buio?
Tutti siamo degli aquiloni, ma l’aquilone fa il suo lavoro e compie la sua missione quando si solleva lasciandosi prendere dal vento. Noi tutti siamo fatti per fare cose grandi, noi che abbiamo sofferto, noi che non abbiamo sofferto, noi che siamo stati i primi della classe, noi che siamo stati gli ultimi. Ma le cose grandi devono passare attraverso il nostro io che si impasta con Dio, per diventare, lentamente ma decisamente, la meraviglia che il Signore ha pensato. Ognuno deve mettersi in relazione con il vento per farsi portare in alto.
Sin dagli inizi dell’avventura del Sermig abbiamo capito che era importante non solo lavorare per i poveri, ma pregare. Eravamo ragazzi, ma avevamo intuito che si fa la volontà di Dio nella misura in cui preghiera e azione camminano insieme. Ebbene, chi ci ha creduto ha cambiato totalmente la propria vita, è felice e senza saperlo ha cambiato la vita anche a tante altre persone. L’incontro tra lotta attiva e contemplazione fa scoprire che siamo fatti di una carne speciale, capace di guardare in alto e diventare un faro di luce (Ernesto Olivero).


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