testa_news

NEWSLETTER n° 11 - 28 settembre 2017

LECTIO DIVINA

1 ottobre 2017

XXVI Domenica del Tempo Ordinario / A

XXVI



Ez 18,25-28; Sal 24,4-9; Fl 2,1-11; Mt 21,28-32



«Un uomo aveva due figli. Al primo disse: “Figlio, oggi va a lavorare nella vigna”. Rispose: no. Ma si pentì e vi andò».
Gesù con questa parabola, con il figlio invitato a lavorare nella sua vigna che prima dice ‘no’ ma che poi va a lavorare, afferma che la conversione è sempre possibile, tutti possono sempre cambiare e divenire migliori: questo è credere nell’uomo e nelle sue insospettabili risorse, è affidarsi alla grazia di Dio e aprirsi alla speranza.
La liturgia della Parola di questa domenica ci invita allora a compiere la volontà di Dio e ad essere responsabili dei nostri comportamenti. Scegliere tra il bene e il male, usare saggiamente della nostra libertà, essere coerenti tra il dire e il fare significa percorrere la strada della Vita, quella che Gesù è venuto ad indicarci.

Commento alle letture

In un quadro storico che mostra la rivendicazione di Gerusalemme che si lamenta dell’agire di Dio, si contrappone la Prima Lettura del profeta Ezechiele che affronta il tema della responsabilità individuale che aveva provocato la rottura dell’Alleanza. Ezechiele si erge coraggiosamente di fronte al popolo e formula con chiarezza e con forza il principio della responsabilità personale, ognuno deve mettersi responsabilmente davanti a Dio: “Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?” (v.25b). A ciascuno è data la libertà e la responsabilità di scegliere e Dio, per mezzo del suo profeta, invita così alla conversione e all’inizio di una nuova vita.
Nella Seconda Lettura, Paolo propone alla Chiesa di Filippi l’esempio concreto della vita di Gesù: quello che lui ha fatto, detto e vissuto. Il principio dell'etica cristiana non è una norma, una morale naturale o una morale più sofisticata, il principio della nostra vita concreta è la storia di Gesù. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio” era Dio, “svuotò se stesso” divenendo uomo e umiliando se stesso “facendosi obbediente fino alla morte di croce”. Siamo richiamati a riprodurre nella nostra vita i sentimenti di Gesù, non facendo nulla per rivalità o vanagloria, non cercando il proprio interesse, nella concordia e nella carità. Questo è il modello che Paolo propone alla comunità di Filippi, e lo propone anche a noi oggi.

Commento al Vangelo

“I pubblicani e le prostitute vi passano avanti al regno di Dio”(v.31b). E’ con questa frase che Gesù cerca di far cogliere la discrepanza tra il dire e il fare religioso dei capi del popolo e degli anziani. La pericope evangelica ci presenta il Signore Gesù che con la parabola dei due figli cerca di portare alla riflessione i capi e gli anziani sul loro comportamento, sulla loro condotta.
Partendo da una scena familiare, la parabola della “disobbedienza Obbediente” (primo figlio che non aveva voglia di andare a lavorare nella vigna ma che poi si pente e va) e della “obbedienza Disobbediente” (secondo figlio che risponde ‘si’ prontamente alla richiesta del padre di andare a lavorare nella vigna ma che poi non ci va), ci aiuta a cogliere e a riflettere sul nostro modo di agire e di pensare, senza ritenerci giusti rispetto all’operare degli altri. Il primo figlio che all’inizio aveva dichiarato la sua non voglia, rappresenta in un certo senso tutti coloro che per i ‘giusti’ erano i peccatori (le prostitute e i pubblicani) ma sono proprio loro che ascoltano l’invito alla conversione e si pentono, e seguiranno il Signore. E’ Gesù stesso che attraverso la domanda “chi dei due ha compiuto la volontà del padre” ci porta a dare l’unica risposta possibile. E’ un metterci a nudo davanti alle nostre contraddizioni del nostro agire cristiano.
E’ attraverso questo sguardo interiore che noi possiamo capire e con umiltà chiedere l’aiuto allo Spirito per osservarci dentro, per cogliere il cammino di conversione che dobbiamo percorrere. Solo così potremo renderci conto se badiamo più all’apparire che all’essere, più alle parole che al fare, più all’esteriorità che al cuore.

Commento Francescano

Anche Santa Chiara, come San Paolo, ci invita ad avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo. Consiglia ad Agnese di Praga di “specchiarsi” interamente nel mistero di Cristo, per poter scrutare la propria vita in quella del Signore:
“Guarda con attenzione il principio di questo specchio, la povertà di Colui che è posto in una mangiatoia e avvolto in pannicelli. O mirabile umiltà, o povertà che dà stupore! Il Re degli angeli, il Signore del cielo e della terra, è reclinato in una mangiatoia. Nel mezzo dello specchio poi considera l’umiltà santa, la beata povertà, le fatiche e le pene senza numero ch’Egli sostenne per la redenzione del genere umano.
Alla fine dello specchio contempla l’ineffabile carità, per la quale volle patire sull’albero della croce e su di esso morire della morte più vergognosa” (FF 2904).

Preghiera finale

Signore Gesù, nel silenzio di questo giorno che finisce, veniamo a chiederti pace, sapienza e forza. Aiutaci a guardare il mondo con occhi pieni di amore; ad essere pazienti, comprensivi, umili, buoni. Donaci uno sguardo che sa vedere dietro le apparenze, per poter così apprezzare la bontà di ognuno. Chiudi i nostri orecchi alle mormorazioni, custodisci la nostra lingua da ogni maldicenza. Rivestici della tua bontà. Amen.



Pensiero del giorno

dal 18 al 24 settembre

Testi liberamente tratti dall'Incontro Nazionale delle famiglie per l'accoglienza
Padova 2017

speranza-vita

“NON LASCIATEVI RUBARE LA SPERANZA”

Angela e Enrico Craighero: la possibilità di una vita lieta non perché sgombra da dolori e fatiche ma perché interamente spesa per domandare il significato di tutto, saldamente ancorati a una speranza certa.

La loro vita è stata significativamente provata dalla nascita, trentasei anni fa, di due gemelli, gravemente disabili che hanno richiesto da subito un accudimento totale che continua ancora oggi. Nei primi anni Enrico ha avvertito maggiormente la ferita per la sua speranza di paternità in qualche modo disattesa dalla dura realtà con cui lui e Angela dovevano fare i conti.
Un giorno, però, mentre imboccavano i figli come al solito, lui si è scoperto affascinato e commosso dal modo con cui sua moglie guardava i due bambini e ha intuito che in quello sguardo di accoglienza gratuita e assoluta c’era il nuovo inizio per lui. Naturalmente quell’intuizione non ha tolto nulla alla sua fatica personale ma, come ci hanno testimoniato entrambi, ha tenuto viva la domanda nel tempo e gli ha permesso di cogliere i tanti segni che sono stati una risposta anche alle loro legittime domande, come ad esempio “chi si occuperà dei nostri figli quando non ci saremo più?”.
Angela ha raccontato di un incontro avvenuto con una famiglia che aveva accolto in adozione un bambino affetto da una grave disabilità e che aveva le stesse esigenze di cura dei suoi figli. In quella testimonianza non cercata ma donata, Angela ha capito ciò che un caro amico sacerdote le aveva provocatoriamente detto tempo prima: “quando non ci sarai più, Dio troverà una mamma migliore di te per loro”.
Il miracolo della vocazione all’accoglienza che rende possibile ad una coppia di amare senza riserve un figlio non biologico e segnato anche da gravi handicap è l’incarnazione della promessa di Dio “anche se ci fosse una donna che si dimenticasse del suo bambino, io non ti dimenticherò mai”.

UNO SGUARDO LIETO IN UN “CAMPO DI GIOCO DIFFICILE”

La realtà che ognuno di noi deve vivere è la cosa più bella e più grande che abbiamo, anche se spesso la realtà non è come la pensiamo o come ce la immaginiamo noi. La vita è un po’ come un campo da gioco: tutti vorrebbero giocare su un tappeto erboso perfetto, perché pensiamo che così si possa giocare meglio. Non dico che ci si possa divertire di più, ma sicuramente si può giocare meglio. Di solito, però, la realtà è un campo da gioco pieno di sassi e dove di erba ce n’è poca. E allora si corre subito un rischio – almeno io l’ho corso –, un rischio alimentato magari dagli amici: «Oh, cambiamo il campo da gioco!», come dire: se possiamo, cerchiamo di modificarla un po’, questa realtà.
Quando sono nati i miei due figli, Paolo e Lele che oggi hanno trentasei anni, entrambi con un handicap grave, il campo da gioco mi è apparso subito non propriamente un tappeto erboso. Però c’è stata una cosa che mi ha colpito e che ricordo molto bene: pur dentro la difficoltà di quel momento, io non volevo cambiare questo campo da gioco, ma volevo vedere come se la cavava, come se la sarebbe cavata chi mi aveva dato quel terreno particolare, quei due figli, come mi avrebbe permesso di vivere e come avrebbe risposto a tutto quello che il mio cuore desiderava, che era la felicità.
Quando il campo da gioco si fa un po’ pesante, quando la realtà diventa faticosa e ti sembra nemica, c’è un aspetto che nella mia vita non ho mai perso di vista: devi dare credito alla tua umanità, cioè a come tu reagisci. Anche una reazione, anche una delusione, anche un’inquietudine, tutto quello che emerge in te quando la realtà è così difficile, tutto questo serve. Non si capisce subito che serve, però bisogna cedere anche a questo non capire subito, perché serve.

OCCHI COLMI DI BELLEZZA

Spesse volte noi abbiamo fretta nella vita.
È come se il tempo fosse contro di noi. Invece è paradossale vedere come il tempo ci è dato per lasciare emergere qualcosa di bello anche da una realtà così dura e faticosa. In fondo in fondo era questo il desiderio che avevo: che da una realtà che mi sembrava così difficile, così complessa, quasi impossibile, potesse venire fuori una bellezza. L’ho desiderato soprattutto in quei quattro anni in cui la vita è stata veramente dura, veramente faticosa, quasi al limite dell’impossibile. Quattro anni in cui, più procedeva il tempo e più mi mancava l’aria, più respiravo con affanno, con fatica; quattro anni in cui sembrava che tardasse ad arrivare la risposta al desiderio di bellezza che qualcuno mi aveva messo nel cuore.
Che cosa deve capitare perché́ una realtà così dura possa incominciare a parlare, a far venire fuori qualcosa che ti aspetti, ma che non sai? Occorre che accada una cosa semplicissima, quella che è capitata a me una sera, dopo quei primi anni così duri: eravamo a tavola, io davo da mangiare a Daniele, mentre Angela, seduta davanti a me, dava da mangiare a Paolo; quella sera – di sere come quella ce n’erano state tante in quattro anni, ma quella sera fu diversa −, alzando gli occhi ho incrociato quelli di mia moglie e li ho visti lieti, ho visto due occhi che guardavano la realtà di quei due figli come io non ero capace di guardare. Anch’io guardavo quei due figli, ma la realtà non mi parlava, mi era come nemica. Lei, invece, guardava quei due figli ed era lieta. Immediatamente – come diceva ieri don Eugenio, dopo mezz’ora dall’incontro con Gesù a casa sua, Zaccheo ha deciso di restituire quattro volte tanto quello che aveva rubato −, in quell’istante, dentro quell’istante, è successa una cosa semplicissima: mi è venuta su un’invidia per quei due occhi di mia moglie e un desiderio di averli anch’io. E subito dopo mi è venuta su una domanda grande come una casa, la grande domanda: «Ma cosa vede lei che io non vedo? Eppure guardo anch’io, ma lei cosa vede che io non vedo?».
Quello è stato l’istante più decisivo della mia vita, perché da quel momento ciò che prima era un peso, una fatica, è diventato un’avventura. Ma non un’avventura per cambiare la realtà, non uno sforzo per modificarla, non uno sforzo per eliminare il limite dei miei figli; no, no. È diventata un’avventura per cercare di capire chi era in grado di dare uno sguardo così a mia moglie.

AMARE LA DRAMMATICITÀ DI UN CAMMINO
La questione della libertà, ossia la strada da percorrere

Che certezza devo avere io? Che certezza devo avere non delle mie capacità e di ciò che Dio compirà? È come quando a mia figlia Arianna è morto il fidanzato. Il padre al mattino mi telefona dicendomi: «Enrico, è morto Giovanni. Devi andare a dirlo all’Arianna». Non riuscivo a entrare nella stanza dell’Arianna per dirle quello che era successo. Non ce la facevo. Poi mi è venuto su un pensiero semplicissimo: «Enrico, ma tu ti ritieni più intelligente di Cristo che ha creato l’Arianna, pensi veramente di sapere tu meglio di Cristo di che cosa lei abbia bisogno per diventare una donna?». Solo questo pensiero mi ha permesso di aprire la porta e di dire all’Arianna quello che dovevo. Quando non sai che risposte dare dal momento, che nel 99% dei casi io risposte non ne so dare; oppure quando tu ti immagini una risposta, pensi che sia quella la cosa giusta da dire, da fare, mi vien su questo pensiero: «Ma tu, Enrico, sei più intelligente di Cristo da sapere di che cosa ha bisogno quella persona?». E perché mi è venuto un pensiero come questo? Per l’appartenenza a una compagnia come la nostra, con un figlio disabile che adagio adagio mi ha educato e ha modificato un po’ il mio cervello, la mia mentalità, una compagnia che mi aiuta a mettere dentro le cose anche il fattore ultimo che sta all’origine di tutto: il Mistero, un Mistero incontrato, un Mistero che si è fatto compagnia. Questa è diventata per me una cosa imprescindibile.

IN SILENZIO A GUARDARE LA SUA LIBERTÀ

Si intuisce che quando uno corre ha un passo per cui si gode la vita mentre tu in quel momento vedi tutto nero e non ti godi la vita, ti dà un po’ fastidio che lui o lei si goda la vita. Nel tempo Angela e io siamo arrivati a capire una cosa: prima era tutto un «fermati, rallenta, scendi un po’ al mio livello!»; e così ci si rovina tutti e due. Quando tu dici: «Fermati!» e l’altro si ferma, chi di solito arranca riesce a convincere l’altro che è quasi più giusto arrancare che correre. Invece arrivi al punto in cui dici: «Caspita, sta correndo. Che bello che corre!». Che bello che corre, perché la volta dopo puoi essere tu a correre. E quando tu arrivi a dire: «Che bello che corri!» scatta una cosa molto semplice: che quando capita a te di correre ti volti indietro e dici: «Corri anche tu», non: «Mi fermo». E questo è un amore che sorregge. Correre verso dove? Che cos’è questo correre? Correre a casa perché c’è Gesù che ti aspetta, salire sul sicomoro come Zaccheo e correre incontro a Gesù. Fra due persone si intuisce quando uno sta correndo e l’altro no. Si intuisce. Si capisce.
«Che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita».

LA PAURA DEL LIMITE

Spesse volte abbiamo paura del limite. Il limite, la nostra umanità, il nostro disagio. E qui il professionista di chi non ha paura del limite si chiama Lele, sempre mio figlio. Lui è un tipo esuberante. Quando ha un rapporto con qualcuno, normalmente succedono questi tre fatti in serie: tentativo di metterti un dito in un occhio, dopo di che un pizzicotto e altro. Comunque questi due gesti bastano. Il suo approccio all’altro è sempre così. Dopo di che – dal momento che non è scemo – si accorge che l’altro lo guarda male. Ma è normale, la vita è fatta così. Lo guarda male, allora lui gira la testa verso i genitori... che lo guardano peggio! E cosa succede, a un certo punto? Che dentro questo sguardo brutto, sia di chi è stato colpito che dei genitori, tenta di abbracciare il mal capitato. E fin quando il mal capitato non lo riabbraccia, lui insiste. Semplice. L’istante dopo, di nuovo dito in un occhio, pizzicotto e via. Immaginate ventiquattro ore, o dodici che siano, per trentasei anni così. Del suo limite il Lele se ne frega. Il suo limite gli serve soltanto per essere abbracciato. Per me questa cosa è bellissima.

L’INQUIETUDINE

Dopo la morte del fidanzato, nostra figlia Arianna, ha vissuto un momento e dei periodi della sua vita abbastanza tosti, soprattutto alla sera quando doveva andare a letto da sola nella camera. Le veniva su proprio un’inquietudine. Lei ci diceva sempre: «Papà, mamma, non mi bastano neanche gli amici. Non bastano neanche le cose belle che pur ho vissuto durante la giornata a far fuori questa inquietudine». Meno male che c’è qualcuno che è padre sul serio, molto più di me. Un giorno incrocia un amico sacerdote e gli parla di questo. La risposta che le ha dato è impressionante, perché noi vorremmo sempre risolvere l’inquietudine, il disagio, mascherarla, ridurla, annacquarla. Mentre lui le ha detto: «Arianna, ti invidio, perché anche io sono come te. Mi auguro che questa inquietudine non ti abbandoni mai nella vita, perché essa è segno di un cuore grandemente ferito. Noi viviamo in un mondo che non può sopportare un cuore grandemente ferito e quindi tenderà sempre a ridurre questa ferita, a farla diventare piccola, ma con una ferita piccola ti accontenterai di risposte piccole, mentre con una ferita grande avrai bisogno della risposta grande, cioè di Gesù. Adesso sta a te decidere come vuoi vivere».
Una ferita è come una finestra: più è grande, più è aperta e più dalla finestra entrano luce e aria; più la restringi, se non addirittura la chiudi, e più non entra né aria né luce. È un esempio che ha fatto anche il Santo Padre: «Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno» (Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, 18 maggio 2013). Che cosa volete? Vivere tutta la vita in una stanza chiusa?





clicca il logo per entrare nel sito
LOGO_DR_TRASP_150
MailPoet