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NEWSLETTER n° 18 - 15 novembre 2017

LECTIO DIVINA

19 novembre 2017
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario / A
XXXIII
Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127 (128); 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30



“Servo” e “padrone” sono termini che, per motivi storici e politici, oggi non piacciono. Nella Bibbia, al contrario, evocano un dinamismo ed una ricchezza di relazioni che dovremmo riscoprire per vivere meglio sia il rapporto con l’autorità sia il rapporto con Dio. Nella parabola cosiddetta dei “talenti” al centro è la relazione fra i servi e il kyrios, il “Signore” dei versetti 20, 22 e 24, con chiaro riferimento al Risorto: la dinamica di questo rapporto “verticale” può diventare terreno di confronto e di crescita anche “orizzontale” sia per chi esercita l’autorità, laica o ecclesiale, sia per chi vi è sottoposto.

Commento alle Letture

La donna forte dei Proverbi (31, 10), metafora di Israele, è laboriosa e piena di carità: il servizio che rende al marito e ai poveri ne fanno oggetto di riconoscenza e di lode dentro e fuori la famiglia. È tutt’altro che una schiava frustrata e sottomessa: al contrario, “ben superiore alle perle è il suo valore”, valore non dato dal fascino e dalla bellezza, doni positivi ma destinati a perire, ma dal rapporto di “timore” con il suo Dio.

Temere Dio significa attenderlo in ogni momento: se ogni momento è buono per il suo arrivo significa che è sempre vicino, che siamo sempre nell’orizzonte del Suo sguardo. Chi, come Adamo, si nasconde da Lui per paura, al Suo arrivo andrà in rovina, si ritroverà lontano, separato dal suo Creatore; i figli della luce, rammenta san Paolo ai Tessalonicesi, vigilano, invece, con fiducia.

Commento al Vangelo

Paura o timore, tenebre o luce, notte o giorno: possiamo lasciarci schiacciare dall’idea della grandezza di Dio, dalla Sua onnipotenza, e rimanere paralizzati, come il servo che riceve un talento e, anziché trafficarlo, lo sotterra in una buca; oppure possiamo, nella nostra piccolezza di servi, sentirci destinatari di enormi ricchezze che diventano fonte di gioia pur non essendo di nostra proprietà.
Il “talento”, nella Palestina di Gesù, era la paga di 6000 giornate lavorative: il servo che, nella parabola, ne riceve uno solo si ritrova comunque fra le mani una cifra enorme, simbolo della grandezza dei doni che Dio affida a ciascuno. Che siano pochi o tanti, sono sempre di grande valore. Trattenerli per sé, non trafficarli per evitare i rischi di un’impresa, quella della vita, che può comportare sacrifici, momenti di fallimento, delusioni e stanchezza, equivale a precludersi l’ingresso nella gioia del nostro padrone.
Chi teme Dio riconosce, come i primi due servi, che il padrone è generoso fino all’eccesso (affida ricchezze enormi ai servi, non ai figli o ai parenti), esigente nel pretendere che i suoi doni circolino per moltiplicarsi, così sicuro di avere ben riposto la sua fiducia da allontanarsi dalle sue terre e dalle sue ricchezze a tempo indeterminato. Chi teme Dio vive da uomo libero perché sa che la sua vita e le sue ricchezze appartengono ad un “padrone” che desidera che “prendiamo parte alla sua gioia” (vv. 21 e 23).
I talenti della parabola sono simbolo della carità divina: la spesa senza riserve della nostra vita per diffondere il bene fra gli uomini raddoppia l’amore di Dio per le sue creature, moltiplica qualcosa che ha già in sé un valore inestimabile. Chi partecipa a questo rischio raggiunge la pienezza di vita, lo shalom, una “pace” ben diversa dal sonno dell’immobilità, dell’accumulo di sicurezze personali illusoriamente intoccabili (1Ts 5, 3). Una “pace” erroneamente intesa ci pone automaticamente “fuori” (Mt 25, 30) dalla gioia del Signore, nel pianto senza speranza di chi, con le sue mani, si separa dalla fonte della vita.

Commento francescano

Giunto quasi al termine della sua vita terrena, San Francesco “si proponeva di evitare la compagnia degli uomini e rifugiarsi negli eremi più lontani, affinché (…) non ci fosse fra lui e Dio che il solo schermo della carne”. Nello stesso discorso esortava: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!” e, prosegue il narratore, “non lo sfiorava neppure il pensiero di aver conquistato il traguardo e, perseverando instancabile (…), sperava sempre di poter ricominciare daccapo. Voleva rimettersi al servizio dei lebbrosi ed essere vilipeso, come un tempo” (FF 500). L’affidamento totale della nostra vita, della nostra “carne” a Dio è una relazione d’amore forte, esclusiva e incontenibile: chi la vive non può non riversarla su chi da Dio è lontano, su chi vive nella tristezza della sua “lebbra”, del suo peccato.

Preghiera conclusiva

Signore, fonte di ogni bene, rendici trasparenti al tuo cospetto, disposti a collaborare alle tue imprese, a rischiare i doni e la vita che ci hai donato per moltiplicare fra gli uomini l’amore tuo infinito. La paura e le tenebre che spesso abitano in noi e fuori di noi non abbiano mai, in questa vita, il sopravvento sulla luce che si sprigiona dalla fede in te. Amen.

Pensiero del giorno

dal 6 al 12 novembre
FRATELLI MAI SENZA IL PADRE

CHE CERCATE?


Due discepoli seguivano Gesù. “Gesù allora si voltò e disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete»” (Gv 1,37-39).

“Che cercate?”.
Queste sono le parole che Gesù dice ad ognuno di noi. Anche noi, come i discepoli, siamo chiamati a seguire Gesù - «Venite e vedrete» - giorno dopo giorno, non sempre sapendo dove ci conduce, ma fidandoci di Lui. A poco a poco ci chiama a scoprire chi è Lui e chi siamo noi.

Tutto inizia con una relazione personale con Gesù.

Egli è venuto ad offrirci la sua amicizia, rivelandoci quanto siamo amati dal Padre. Chiama l’uomo, ferito dal peccato, alla beatitudine, alla gioia, ad un’alleanza d’amore di cui è segno il banchetto di nozze a Cana. Qui conduce i primi discepoli, a una festa, segno dell’unione sponsale fra Dio e l’uomo.

Dio è scandalosamente diverso da quello che noi pensiamo, non corrisponde all’attesa di chi sogna un Dio potente che stermina i malvagi e premia i buoni (e chi si salverebbe?). E’ invece “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29).
Siamo chiamati a essere miti seguaci dell’agnello, non gente di potere. L’agnello romperà il muro della paura, della violenza, del peccato che imprigiona le persone in se stesse e le incita a cercare la propria gloria.

Lo Spirito Santo, lasciatoci da Gesù, ci rende capaci di profezia cioè di cogliere in noi, negli altri e in ogni evento la presenza di Dio. Scopriamo di essere amati così come siamo: quando ci rendiamo conto che non dobbiamo essere intelligenti, potenti o di successo per essere amati, allora possiamo vivere in verità, venire alla luce ed essere guidati dallo Spirito di Dio.



TESTIMONI DI GESU’

Coloro che sono testimoni di Gesù non annunciano ideologie o dottrine proprie.
Non cercano seguaci per se stessi o la propria gloria.
Non manipolano la gente o impongono agli altri le proprie idee o il proprio stile di vita.

Cercano piuttosto di portare le persone verso Gesù.

Sanno che il Figlio dell’uomo è venuto a condurci dentro una nuova visione dell’umanità. Un mondo dove il successo non è la cosa più importante della vita e dove si cerca di superare competizione, rivalità e avidità.

Parlano con chiarezza, verità e coraggio, persino di fronte all’opposizione o alla derisione.

I testimoni raccontano di come Gesù trasforma la loro vita, spezzando le barriere della paura e del peccato che li chiudono in se stessi; raccontano di Gesù che sana i loro “cuori di pietra”, dando loro “cuori di carne” e li conduce all’amore e alla compassione.

I testimoni di Gesù sono uomini e donne che vivono davvero quello che annunciano, che danno testimonianza della presenza di Dio più con la loro vita che con idee o con parole.

Gesù dice che la gente riconoscerà i suoi discepoli
dall’amore che avranno gli uni per gli altri.



UNA FEDE ADULTA

«Il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni: nulla è definitivo e l’ultima misura di tutto è solo il proprio io e le sue voglie.
Noi, invece, abbiamo un’altra misura. il Figlio di Dio, il vero uomo, è Lui la misura del vero umanesimo.
“Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. E’ quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità» (Benedetto XVI).
Gesù è il “vero uomo” che chiama l’umanità a partecipare alla sua vita divina.
E’ da qui che la Chiesa deve muoversi. Non si tratta di inventare un nuovo programma. Il programma c’è già e si incentra in Cristo stesso da conoscere, amare e imitare per vivere con Lui in amicizia.
La Chiesa non cercherà certo né di piacere né di conformarsi al mondo. Deve testimoniare il primato di Dio su tutte le cose. “La Chiesa del ventunesimo secolo o sarà contemplativa o non sarà affatto”.
Senza lo Spirito Santo, cioè senza profezia, possiamo fare di Dio stesso un idolo, strumentalizzandolo e modellandolo a nostro piacimento. Così ogni istituzione, anche la più santa, senza profezia non dà vita all’uomo. Senza l’apertura allo Spirito, il “cuore di pietra” non diviene “cuore di carne”.
La stessa legge di Dio può servire per generare in noi sentimenti di superiorità, forme legalistiche di religione: Gesù, al Tempio, vedrà la casa del Padre trasformata in un luogo di mercato e si imbatterà negli uomini della legge, i farisei, che caricavano gli altri di pesi insormontabili.
Gesù, prima di inviare i discepoli ad annunciare il Suo messaggio di amore e perdono, vuole che stiano con lui, che abitino con lui e diventino suoi amici, in modo che non annuncino tanto una teologia o una dottrina, ma una persona: Gesù. Una persona che amano, una persona con cui hanno una relazione viva, una persona che trasforma la loro vita. Attraverso la preghiera noi manteniamo questa relazione viva con Gesù, quello “stare con Lui” che ci apre e trasforma la nostra vita.



L’ALLEANZA TRA DIO E L’UOMO: UNA FESTA DI NOZZE

“Ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, Gesù disse ai servi: «Riempite d’acqua le giare e portatene al maestro di tavola». E come l’ebbe assaggiato, si accorse che l’acqua era diventata vino” (cfr. Gv 2,1-9).

Gesù porta i discepoli prima di tutto a una splendida festa, a un banchetto di nozze. E’ lì che cominciano il loro viaggio di fede.

Per Gesù il matrimonio non è una prigione di faticosa fedeltà, ma il segno di una unione sacra, avvolta nell’amore, che rende capaci le persone di crescere nel perdono, nella tenerezza, nella gentilezza e nella compassione.
E’ un’alleanza d’amore, la stessa che c’è tra Dio e ogni uomo.
Il vino che viene a mancare è l’amore dell’uomo che viene meno. Nel trasformare l’acqua in vino, Gesù rivela che vuole cambiare l’acqua della nostra debole e infedele umanità nella gioia e fedeltà di una relazione di amicizia con Lui: così scopriamo che siamo amati e che possiamo imparare ad amare come ama Lui.


Il bisogno di amare e di essere amati.

“Questo è il desiderio più profondo dentro ognuno di noi, più profondo anche del nostro bisogno di apparire forti e potenti. Quando la gente non si sente amata, cerca di essere ammirata.

La nostra sete di amore, di essere amati, può facilmente essere deviata e diventare perversa. Coloro che lavorano nel campo della pubblicità “usano” questo profondo desiderio di amore e illudono l’uomo con immagini di donne stupende e di uomini belli e forti per vendere e per attirare la gente.

Siamo tutti più o meno fragili e feriti nei nostri affetti e nella nostra capacità di metterci in relazione. Ogni volta che entriamo in una relazione, assumiamo dei rischi. L’amore è il dono di sé ad un altro. Desideriamo fortemente l’ “amore”, ma la relazione e l’impegno ci spaventano.

Se coltiviamo in noi il germe dello Spirito, accoglieremo la fatica e la gioia di una relazione fedele e duratura che ha come direzione l’amore di Dio.

Gesù che porta i suoi discepoli a questa festa di nozze è la nostra speranza. Il nostro desiderio d’amore, che risveglia in noi la sete di un amore eterno e infinito, non è irraggiungibile e schiacciato dai nostri limiti e dalle nostre fragilità. Non ci inganniamo se crediamo nell’amore: l’amore è possibile”.


CORPO E CUORE: LUOGHI DI MERCATO?

“Gesù salì a Gerusalemme e trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco. Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio e disse ai venditori: «Portate via queste cose e non fate della casa del padre mio un luogo di mercato». (Gv 2,13-16).

Gesù salendo al Tempio, casa del Padre, lo vede ridotto a “supermercato del religioso”, dove la gente sta facendo del denaro un idolo.

Gesù grida anche contro la profanazione del nostro corpo. Noi essere umani siamo chiamati a essere la “casa”, la dimora di Dio. “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio?...Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1Cor 6,19).

Etty Hillesum, una giovane donna ebrea uccisa ad Auschwitz, aveva un senso profondo del valore di ogni persona come “casa” di Dio. Durante la deportazione, scrisse che il suo unico desiderio era di aiutare le persone a scoprire il tesoro che c’è in ognuno di loro, ossia che ogni persona è chiamata ad essere la “casa di Dio”. “Ti prometto, mio Dio, che cercherò di trovare una “casa” e un tetto per Te in quante più case possibili. Ci sono così tante case vuote oggi, dove ti porterò come ospite d’onore”.

La minaccia del mondo moderno è l’opprimente commercializzazione.
Il mondo commerciale e pubblicitario cerca di formare la nostra cultura, i nostri pensieri, la nostra immaginazione, la nostra vita. Per vendere vengono usati immagini e cliché seducenti e accuratamente studiati che sembrano risvegliare nella gente caotici elementi di sessualità, di violenza e di sete di potere.
I grandi centri commerciali, allettano a comprare più di quanto si ha effettivamente bisogno. Stanno sostituendo chiese e templi come luoghi in cui la gente si riunisce.
La televisione offre solo sicurezza e promesse di felicità immediata, dove evoca il desiderio e il bisogno di cose non essenziali, facili da usare, cui è difficile resistere.
Il denaro è usato per coltivare un forte individualismo: la ricchezza è per me, per la mia famiglia e per il mio gruppo!
Oggi sembriamo aver perso il senso del ruolo e della dignità dei nostri corpi. Molti di noi non sono consapevoli dello spazio sacro dentro di noi. Questo luogo, che è il più profondo in tutti noi, è il cuore, il luogo più vero della nostra persona, il luogo della pace interiore dove dimora Dio e dove riceviamo la luce della vita e i sussurri dello Spirito di Dio. E’ il luogo in cui facciamo le scelte di vita e da cui nasce il nostro amore per gli altri.
Poiché la nostra società diventa sempre più rumorosa e affaccendata, rischiamo di dimenticare questo luogo silenzioso e sacro dentro di noi. Può essere profanato. Diventa come un luogo di mercato, un centro commerciale, invaso da bisogni superficiali e da tutti i generi di banalità.
Rischiamo anche di profanare il corpo degli altri. Non li vediamo più come sacra dimora di Dio che ci chiama a un profondo rispetto, ma piuttosto come oggetti di desideri e fantasie, come merci da essere comprate.
La pena nel cuore di Gesù, quando vede il Tempio di Gerusalemme trasformato in un luogo di mercato, è la stessa di oggi quando vede i cuori e i corpi diventati un luogo di mercato, e non più fonte di vita e amore per gli altri.



LA LEGGE DELLO SPIRITO

“C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio». Gli rispose Gesù: «In verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio»” (cfr. Gv 3, 1-3).

Nicodemo è attratto dai prodigi che Gesù compie. Ma Gesù non si lascia incantare da simili apprezzamenti e gli rimprovera la sua inettitudine a comprendere, nonostante sia dottore in Israele.

Nicodemo si aggrappa a forme legalistiche di religione. Lui conosce la legge. Esercita un “potere spirituale”. Ma le certezze e la legge possono anche chiuderci in noi stessi, nell’autocompiacimento della conoscenza e di sentimenti di rettitudine e superiorità. Questo può impedirci di ascoltare le persone e di essere aperti alle nuove strade di Dio.
Al “sappiamo” di Nicodemo, Gesù propone un altro modo di essere e di vivere: il modo di “non sapere”, di “rinascere dall’alto”.

E’ necessario rinascere dallo Spirito, in quanto solo lo Spirito ci rende capaci di intendere le cose spirituali, senza lasciarci guidare da principi puramente umani. Lo Spirito interviene nello spazio della nostra povertà e insicurezza, ispirandoci a dire o a fare cose che non avevamo programmato.

Intuito e ragione.
«Fin da quando eravamo giovani ci è stato insegnato ad essere autonomi, competenti e a pianificare la nostra vita, a volte con chiare certezze morali e religiose. Tali certezze danno sicurezza, questo è importante e necessario. Tuttavia, Gesù sta affermando un nuovo sentiero che implica rischi, insicurezza e vulnerabilità. Implica intuito e fiducia più che ragione.
Una volta, un cronista televisivo mi chiese come capii di dover lasciare la marina militare per seguire Gesù, come seppi che la mia vocazione era di vivere con persone disabili. Lo sorpresi, chiedendogli in risposta: “Lei è sposato? Perché ha chiesto a questa donna in particolare di essere sua moglie?”. Era confuso. Gli dissi: “Ci sono momenti nella nostra vita in cui non ragioniamo sulle cose, ma sappiamo, nel profondo del nostro cuore, che questa è la cosa giusta da fare”.
Sentiamo o intuiamo delle cose. Esse non sono programmate. Non possiamo controllare lo Spirito, dobbiamo lasciarci guidare da lui. Questo ci porta ad assumere dei rischi, a vivere in comunione con Dio e con gli altri.
Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne...Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé: contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,16.22-23)».


TESTA E CUORE

Essere persona significa divenire consapevoli di se stessi, differenziarsi dagli altri, dalla collettività anonima, significa sviluppare le proprie esigenze profonde, entrare nella dimensione spirituale.
Affermare e realizzare il nostro essere persona è il vero significato dell’esistenza umana. Ma per farlo occorre grande coraggio perché il percorso di crescita non ha mai fine. Bisogna entrare dentro di sé e guardarsi bene, senza giustificazioni di sorta, e riconoscere la propria parte debole. Questo cammino non è mai sicuro e semplice o prevedibile: è irto di conflitti, di ambivalenze, di errori, di incomprensioni, di paure.

Ma per vivere pienamente bisogna raggiungere il “cuore”, non fare funzionare soltanto la “testa”.
Occorre vivere la vita e non farsi vivere da essa.
Occorre pulirsi dentro e basarsi sui ritmi che vengono dal profondo di noi, dal cuore, dall’anima.

Ma vivere così crea problemi a coloro che ci circondano. Vivere con pienezza, da persone, viene visto come pericoloso da parte della maggioranza.

Perché apre nuove vie.
Perché non ammette il dominio dall’esterno.
Perché è novità, rischio e utopia.
Perché chi segue la propria interiorità non accetta supinamente lo “status quo”, i ritmi del sistema, che negano l’individualità, la singolarità di ogni persona.
Chi vuole vivere, oltre che con la testa, anche con il cuore, rischia la derisione e l’emarginazione.
Chi scende nel profondo di sé e ha il coraggio di guardare in faccia i propri demoni rimane segnato, come marchiato per sempre.
E’ un consapevole.
Una PERSONA.




Per la Quaresima

il Monastero propone gli Esercizi spirituali aperti a tutti:

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