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LO SPECCHIO DELL’ETERNITA’ – 13 Agosto 2017

«Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell’eternità, colloca la tua anima nello splendore della gloria, colloca il tuo cuore in Colui che è figura della divina sostanza e trasformati interamente, per mezzo della contemplazione, nell’immagine della divinità di Lui. Allora anche tu proverai ciò che è riservato ai soli suoi amici, e gusterai la segreta dolcezza che Dio medesimo ha riservato fin dall’inizio a coloro che lo amano. Senza concedere neppure uno sguardo alle seduzioni, che in questo mondo fallace ed irrequieto tendono lacci ai ciechi che vi attaccano il loro cuore, con tutta te stessa ama Colui che per amor tuo tutto si è donato» (Lett. III,12-15: FF 2888-2889)

LA FRATERNITA’ E’ CHIAMATA – 12 Agosto 2017

Elemento peculiare del  carisma dell’Ordine di Santa Chiara,  da lei chiamato ” ordine delle sorelle povere”, è questo  osservare la povertà e l’umiltà del Signore nostro Gesù Cristo, e partecipare alla povertà di Cristo, in quale da ricco che era si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà
(Costituzioni generali, art. 32)

La signiticatività della vita monastica passa anche attraverso piccole fraternità che scelgono di inculturarsi in luoghi di precarietà e di degrado, attraverso fraternità che compongono la solitudine e la comunione, l’autonomia e la consegna di sé nell’obbedienza, il senso di precarietà e la speranza, alla continua presenza di Dio.

La fraternità è chiamata

– a testimoniare che è possibile vivere con gioia il vangelo in altissima povertà;

– a rendersi presente come famiglia riconciliata con il suo esserci
in comunione, dove ogni membro, abitato dallo Spirito, unico e irrepetibile,
riconosce nella parità di relazioni i ruoli diversi;

– a vivere nella marginalità accanto ai poveri, condividendo la loro storia;

– ad abitare in strutture semplici, essenziali e sobrie, tra i poveri, per rendere visibile e credibile la cura di Dio soprattutto verso chi non ha voce e offrire loro segni di speranza.

AMMONISCO POI ED ESORTO… – 11 agosto 2017

«Ammonisco poi ed esorto nel Signore Gesù Cristo,
che si guardino le sorelle da ogni superbia,
vanagloria, invidia, avarizia, cura e sollecitudine di questo mondo,
dalla detrazione e mormorazione,
dalla discordia e divisione»
(Regola di Santa Chiara X,6)


Donne in relazione

La formazione integrale di ogni sorella comporta la maturazione della persona alla relazione con se stessa, con le sorelle, con gli altri, con Dio, per non rendere disincarnata la forma di vita evangelica.

La superbia, la vanagloria, l’invidia, l’avarizia, ecc. sono espressione di problemi umani non risolti: la continua attenzione a Dio rende più delicata e rispettosa l’attenzione agli altri membri della comunità, e la contemplazione diventa una forza liberatrice da ogni forma di egoismo. La persona consacrata si libera progressivamente dal bisogno di mettersi al centro di tutto e di possedere l’altro, e dalla paura di donarsi ai fratelli; impara piuttosto ad amare come Cristo l’ha amata, con quell’amore che ora è effuso nel suo cuore e la rende capace di dimenticarsi e di donarsi come ha fatto il suo Signore.

E ancora: la relazione vera con Dio fa sperimentare la comunità non come luogo di rifugio, ma come luogo per costruire o per scoprire la comunione.

«Siano invece sempre sollecite nel conservare
reciprocamente l’unità della scambievole carità,
che 
è il vincolo della perfezione»
(Regola di Santa Chiara, X 7)

 

La santa unità

L’individualismo che può toccare anche le fraternità clariane, in nome del diritto alla realizzazione personale, è oggi il motivo dominante della frantumazione della santa unità. Nello stesso tempo le singole sorelle spesso sono state omologate l’una all’altra in nome dell’unità confusa con l’uniformità: l’unità per Chiara è al di sopra di tutto: l’unità dell’amore è il vincolo della perfezione, il compimento della chiamata di Dio, della sequela di Gesù povero.

Quando l’unità è trasformata in uniformità e la stabilità in fissità, si blocca l’azione dello Spirito di Dio nelle fraternità: ogni carisma comporta, infine, un orientamento verso lo Spirito Santo, in quanto dispone la persona a lasciarsi guidare e sostenere da Lui, sia nel proprio cammino spirituale che nella vita di comunione e nell’azione apostolica, per vivere in quell’atteggiamento di servizio che deve ispirare ogni scelta dell’autentico cristiano.

Bisognerebbe formare ogni sorella ad accogliere la propria e altrui diversità per poter assumere, nella fedeltà dinamica, la forma di vita delle sorelle povere. La verifica di unità di vita può essere fatta sulla fedeltà a Cristo e al vangelo, fedeltà alla Chiesa e alla sua missione nel mondo, fedeltà alla vita religiosa e al carisma proprio dell’istituto, fedeltà all’uomo e al nostro tempo.

SE ACCADESE – NON SIA MAI! – CHE TRA SORELLA E SORELLA… – 10 agosto 2017

Se accadesse – non sia mai! – che tra sorella e sorella
per una parola o un segno
talvolta nascesse 
occasione di turbamento o di scandalo
(Regola di Santa Chiara IX, 7)

 

Testimoni di spiritualità della comunione

 

Nelle relazioni umane i rapporti non sempre sono autentici. Possono essere dettati da competizione, gelosia, invidia, arrivismo, individualismo, che minano la spiritualità di comunione, a causa di una mancata maturità umana. La Spiritualità della comunione è capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio; è saper fare spazio al fratello portando insieme gli uni i pesi degli altri. Senza questo cammino spirituale, a poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione.

La vera natura dell’amore cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà ‘esserci per’ l’altro.

Per curare la formazione umana bisognerebbe favorire un cammino spirituale autentico, attraverso cui la persona rende visibile l’assunzione consapevole della propria umanità abitata da Dio e la riconosce negli altri. Il riscontro della formazione umana si esprime con le qualità richieste in tutte le relazioni umane: educazione, gentilezza, sincerità, controllo di sé, delicatezza, senso dell’umorismo e spirito di condivisione, la lieta semplicità, la chiarezza e la fiducia reciproca, la capacità di dialogo, l’adesione sincera a una benefica disciplina comunitaria.

Scoprire in fraternità giorno per giorno la gioia di vivere, pur in mezzo alle difficoltà del cammino umano e spirituale e alle noie quotidiane, fa parte già del Regno. Questa gioia è frutto dello Spirito.

Tale testimonianza di gioia costituisce una grandissima attrazione verso la vita religiosa, una fonte di nuove vocazioni e un sostegno alla perseveranza.

Un compito che la Chiesa affida alle comunità di vita consacrata è la crescita della spiritualità della comunione. Quando nelle fraternità le persone si incontrano come sorelle, anche se di differenti età, lingue e culture, testimoniano la possibilità fattiva del dialogo e di una comunione capace di armonizzare le diversità.

L’invito di Gesù: ‘Venite e vedrete’ (Gv 1,39) rimane ancora oggi la regola d’oro della pastorale vocazionale. Essa mira a presentare, sull’esempio dei fondatori e delle fondatrici, il fascino della persona del Signore Gesù e la bellezza del totale dono di sé alla causa del vangelo. Compito primario di tutti i consacrati e le consacrate è, perciò, quello di rendere visibile, con coraggio e con passione, con la parola e con l’esempio, l’ideale della sequela di Cristo, attraverso un ascolto e una risposta costante agli impulsi dello Spirito nel cuore di ciascuna.

Una vita centrata in Cristo non ha bisogno di ripiegarsi, perché il proprio io non è rivolto verso se stessa, ma sempre verso il tu, Dio e gli altri.

NON ESTINGUANO LO SPIRITO DELLA SANTA ORAZIONE E DEVOZIONE – 9 agosto 2017

Non estinguano lo spirito della santa orazione e devozione
(Regola di Santa Chiara VII, 2)

 

Chiara non dimostra una separazione tra vita di preghiera e lavoro, anzi il lavoro è strumento per non estinguere lo spirito della santa orazione e devozione.

Quando si è unificati interiormente intorno alla persona di Gesù Cristo, non c’è frammentarietà nella vita personale e fraterna: il fondamento evangelico della vita consacrata va cercato nel rapporto speciale che Gesù, nella sua esistenza terrena, stabilì con alcuni dei suoi discepoli, invitandoli non solo ad accogliere il regno di Dio nella propria vita, ma a porre la propria esistenza a servizio di questa causa, lasciando tutto e imitando da vicino la sua forma di vita.

Fondate in Cristo, le sorelle povere possono essere, con il dono totale di sé a Dio, “memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli”.

La dimensione contemplativa abbraccia tutta la vita umana vissuta in Dio. Il confronto con la Parola permette di assimilare i sentimenti di Cristo, per poter assumere, da persone unificate, la forma di vita evangelica nel quotidiano. L’ascolto della Parola diviene un incontro vitale e privilegiato con Dio, attraverso il metodo della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza.

Non si può essere persone che rendono presente storicamente Dio con la propria esistenza, senza il continuo riferimento alla sua Parola. Se ciò vale per la vita del credente, a maggior ragione, per quella del consacrato, chiamato a coniugare senza sconti la fede con la vita: la Parola di Dio è alimento per la vita, per la preghiera, per il cammino quotidiano, il principio di unificazione della comunità nell’unità di pensiero, l’ispirazione per il costante rinnovamento e per la creatività apostolica. La preghiera e la contemplazione sono il luogo di accoglienza della Parola di Dio e, nello stesso tempo, esse scaturiscono dall’ascolto della Parola. Senza una vita interiore di amore che attira a sé il Verbo, il Padre, lo Spirito (Cfr Gv 14, 23) non può esserci sguardo di fede; di conseguenza la propria vita perde gradatamente senso, il volto dei fratelli si fa opaco ed è impossibile scoprirvi il volto di Cristo, gli avvenimenti della storia rimangono ambigui quando non privi di speranza.

LE SORELLE ALLE QUALI IL SIGNORE HA DATO LA GRAZIA DI LAVORARE – 8 agosto 2017

Le sorelle alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare 
(Regola Santa Chiara VII, l)

Lavorare come gli altri

Approfondire la categoria del lavoro al tempo di Chiara permette di pensare al lavoro delle sorelle povere nell’oggi. Tenendo presente che anche nel duecento il lavoro non era soltanto un mezzo per combattere l’ozio, ma per poter vivere, la fraternità scelse di essere volontariamente povera, custodendo la formula povertà-lavoro, tipica dei poveri di allora. La filatura e il cucito, lavori tipici del tempo di Chiara descritti nelle Fonti, non erano né un esercizio ascetico né un passatempo, ma una forma di lavoro con cui le sorelle povere si potevano guadagnare il pane, condividendo in questo modo la condizione delle donne lavoratrici. Nello stesso modo con cui si ponevano i frati minori nel lavoro dipendente, artigianale e agricolo, non chiedendo salario, così le sorelle povere offrivano i loro manufatti, quale compenso per aiuti, per elemosine ricevute. Le sorelle povere, come dice la regola, non lavoravano solo per evitare l’ozio, ma per procurarsi con le loro mani di che vivere: il lavoro manuale, scandito da un orario rigoroso, svolto in modo sistematico e non affidato al capriccio di un momento, certamente non era né attività delle religiose del tempo né di nobili dame, ma era esperienza solo delle donne povere, appartenenti a ceti subalterni. Pertanto, così come veniva concepito e vissuto a San Damiano il lavoro costituiva uno degli aspetti più evidenti di quella condizione di minorità che Chiara come Francesco ritenevano non disgiungibile dall’evangelo.

Una specificazione ancora più aderente al tempo circa la concezione del lavoro in Chiara è data dal seguente approfondimento: lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV.

Questo tema è centrale nello svolgimento della forma vitae, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante.

Dalla regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. Possiamo vedere nel testo clariano la stessa logica di Francesco: lavoro mercede per il sostentamento elemosine (con la differenza che Chiara permette di ricevere la pecunia).

Le sorelle povere sceglievano il lavoro manuale, perché in questo modo si mettevano sullo stesso piano soprattutto di tante donne costrette a vivere nella povertà, condividendo in questo modo la loro esperienza di fatica per un lavoro scarsamente retribuito, nonché per l’umiliazione subita a causa della mendicità: il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni, una scelta contro corrente sia nei confronti della nobiltà, da cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.

E AFFINCHÉ NON CI SCOSTASSIMO MAI DALLA SANTISSIMA POVERTÁ CHE ABBRACCIAMMO – 7 agosto 2017

E affinché non ci scostassimo mai dalla santissima 
povertà che abbracciammo,” (Regola Santa Chiara VI,6)

Condivisione della marginalità dei poveri come Cristo

Le costituzioni evidenziano i fondamenti teologici della povertà nelle seguenti espressioni: «guarda Cristo, “fatto per te oggetto di disprezzo e seguilo, rendendoti per amor suo spregevole in questo mondo”» (art. 36.2) e «da ricco che era si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (art. 32.1). Il primo senso della povertà è, quindi, testimoniare che Dio è la vera ricchezza del cuore umano7 e che «la povertà rende liberi dalla schiavitù delle cose e dei bisogni artificiali a cui spinge la società dei consumi, e fa riscoprire Cristo, l’unico tesoro per il quale valga la pena di vivere veramente».

Una scelta di vita che assume la povertà come valore evangelico, ha bisogno di essere visualizzata, però, con comportamenti concreti e congruenti: «La povertà è il segno di appartenenza a Lui, è la garanzia di credibilità del Regno già presente in mezzo a noi. Un segno sempre più convincente ai nostri giorni quando si tratta di una povertà vissuta in fraternità, con uno stile di vita semplice ed essenziale, espressione di comunione e di abbandono alla volontà di Dio».

La povertà radicale, codificata da Francesco e Chiara nell’espressione «vivere senza nulla di proprio», si ispira non alle mode correnti, ma all’amore di Cristo, al Povero per eccellenza (cf. TestsC 45) , da cui entrambi hanno appreso l’arte della spoliazione e dell’abbassamento più radicale e assoluto. Per Chiara e per Francesco la «Santissima povertà» non è semplicemente una virtù, né solo una rinuncia alle cose, ma è soprattutto un nome e un volto: il volto di Gesù Cristo povero e crocifisso (cf. 2 LAg 19). Per Francesco e Chiara, la contemplazione di Cristo povero non si riduce a una bella teoria mistica del distacco, ma prende carne in una povertà reale, concreta, essenziale.

Francesco prima e Chiara successivamente scelgono di vivere come i poveri per «seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signor nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre» (cf. RsC VI, 7): «[…] il momento centrale della conversione di Francesco non è stato quello pauperistico ma […] il passaggio da una condizione umana ad un’altra, l’accettazione del proprio inserimento in una marginalità, l’ingresso fra gli esclusi[ … ]. Francesco dunque non scelse tanto di venire in soccorso degli ultimi: erano già in molti a farlo, anche ai suoi tempi; semplicemente scelse di farsi uno di loro, abbracciando il dolore umano e l’emarginazione come via prediletta per seguire le orme di Cristo crocifisso […]. La sequela Christi, che ritrovava nell’obbedienza e nella povertà i suoi connotati essenziali, portava come sua necessaria conseguenza la condivisione di vita con le

LA PREGHIERA DEL MONACO – 6 agosto 2017

Molti oggi hanno paura della solitudine, non si sentono vivi se non sono attorniati continuamente dalla gente.

La solitudine, però, può essere anche una benedizione. Se non la si confonde con un arido isolamento e con la terribile assenza di contatti sociali, la capacità di stare soli con se stessi è un elemento centrale di ogni percorso spirituale: senza momenti in cui stare soli non esiste una vera relazione con Dio, né si riconosce con sincerità chi si è realmente.

A chiunque di noi capita di essere soli, provare un senso di solitudine, dipende da noi però il modo con cui scegliamo di vivere quella solitudine. E’ in nostro potere ribellarci alla solitudine oppure viverla come una fonte da cui attingere, realtà preziosa che ci mette a contatto con la ricchezza del nostro animo.

Ciascuno ha il suo modo per meditare. Nella mia cella ho un angolo per la preghiera con un’icona di Cristo. Ogni mattina accendo una candela e poi medito con la preghiera di Gesù: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!”. Questa preghiera mi conduce nello spazio interiore del silenzio, che è riempito dall’amore di Cristo. In questo spazio mi sento a casa, al sicuro. Sento come la meditazione mi faccia bene.

Naturalmente la preghiera non è sempre meravigliosa. A volte, pur con tutta la pratica, sono distratto. In questi casi, guardo l’icona e i pensieri molesti se ne vanno.

Affido a Dio la giornata, tutto ciò a cui ho messo mano oggi, ciò che è riuscito e ciò che non lo è. Senza rimuginarci su.

Talvolta è la svogliatezza a trattenerci dal meditare. Se però ci fermiamo e ci atteniamo con perseveranza alla nostra meditazione, la pace torna ad affiorare dentro di noi:

“Un fratello interrogò un anziano dicendo: ‘I miei pensieri divagano e io ne sono angustiato’. E quello gli disse: ‘Rimani seduto nella tua cella ed essi torneranno indietro. Come, infatti, quando un’asina è legata, il suo puledro saltella di qua e di là, ma, dovunque vada, ritorna sempre da sua ma- dre, così i pensieri di colui che persevera nella sua cella a causa di Dio, se anche divagano per un po’, poi ritornano di nuovo da lui” (detti dei Padri del deserto).

IL SILENZIO, LA SOLITUDINE E L’ESAME DI COSCIENZA – 5 agosto 2017

 

La preghiera abbisogna di silenzio e solitudine. La tradizione monastica afferma che “la cella è specchio del monaco ” e che la cella esteriore, la cella in muratura, è rinvio alla cella interiore, alla cella del cuore. Custodire la cella è custodire il cuore, vegliare, conoscere le proprie tentazioni, combatterle, entrare nella lotta spirituale. La cella, ovvero, uno spazio di solitudine e un tempo di silenzio, consentono di imparare i fantasmi che ci abitano, i demoni che ci agitano. Dobbiamo chiederci se tv, musica, computer, non bloccano e anestetizzano la valenza rivelati va che la ‘cella’ può svolgere nei nostri confronti.

‘In che consiste la storia di ogni tua giornata? Prendi in esame le tue abitudini’. L’esame di coscienza aiuta l ‘uomo a rendersi conto della sua debolezza, dei suoi errori e lo immette nella via della correzione. Seneca scrive: “Io mi metto sotto processo ogni giorno “. Alla sera, prima di andare a letto, “scruto l ‘intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla”. Si tratta di interrogarsi su ciò che si è vissuto, sulle reazioni avute nei rapporti con gli altri, e porre tutto questo davanti alla parola di Dio e allo sguardo del Signore, per non cadere nei perfezionismi moralistici. La quotidianità è lo specchio che riflette per noi la nostra immagine e ci permette di convertirci alla luce della parola del Signore.

Luoghi di educazione alla preghiera

Dove ci si educa alla preghiera, c’è anche la vita. I luoghi di educazione alla preghiera sono anche i luoghi di trasmissione della vita. Non può essere diversamente visto che la preghiera è vita vissuta davanti a Dio. Questo comporta che l’educazione alla preghiera ha bisogno di testimoni, più che di maestri; di servi della Parola, più che di esegeti; e si nutre di fede semplice, di umanità autentica e di umile apertura all’azione dello Spirito. Sono ambiti di educazione alla preghiera, tra gli altri, la famiglia, le comunità, la liturgia e la paternità spirituale.

Laccompagnamento spirituale è fondamentale nell’opera di iniziazione alla preghiera. Consente di sfuggire ai rischi del soggettivismo, del ‘fai da te’, dello spontaneismo. Il padre spirituale deve essere un uomo capace di trasmettere vita: un uomo che ha esperienza umana e spirituale e sa comunicarla. Non è affatto necessario che sia un teologo o un intellettuale, ma che abbia il dono del discernimento. Le difficoltà nella preghiera, i periodi di non senso e di aridità, le crisi che intervengono nel cammino di fede, sono situazioni che all’interno della relazione di paternità spirituale, segnata da fiducia e discrezione, possono essere affrontate ed elaborate.

(cfr Luciano Manicardi, monaco di Bose)

I SALMI – 4 agosto 2017

La liturgia quotidiana della Chiesa è intessuta della preghiera dei Salmi. Scrive Atanasio di Alessandria: “Mi sembra che i Salmi diventino per chi li canta come uno specchio perché possa osservare se stesso e i moti della propria anima, e recitare i Salmi con tali sentimenti”. Nel libro dei Salmi chi ascolta impara così a conoscere le passioni che lo fanno soffrire e lo tengono prigioniero.

In particolare i Salmi insegnano l ‘unità fra preghiera e vita. Essi non sono altro che vita e storia messe in preghiera, cioè davanti a Dio: dire che i salmi insegnano a pregare significa che insegnano a vivere le situazioni quotidiane davanti a Dio. Forse è questa la loro valenza più significativa. Essa implica infatti l ‘unità della persona umana: lungi da scissioni fra spirituale e materiale, fra piano intellettuale e piano della prassi, l’uomo (con tutto il suo essere e tutto il suo mondo) è implicato nella preghiera. L’unità tra preghiera e vita comprende anche l ‘intrinseco rapporto fra piano personale e piano comunitario: l’orante dei salmi non dice «io» senza dire al tempo stesso “noi”, senza cioè essere consapevole del suo inserimento nella Chiesa( cf. Sal 51, 20-21).

Insomma, i Salmi sono un costante appello alla conversione da forme anchilosate, edulcorate, atrofizzate di fede. Con l’infinita gamma di linguaggi che essi presentano (silenzio, lacrime, gemito, grido, sussurro, dialogo interiore, risa, stupore, confidenza, …) essi ricordano che la preghiera è

relazione con Dio, ma relazione vissuta, concreta, quotidiana, esistenziale, storica. Ricordano che la preghiera è vita vissuta davanti a Dio.

LA CONOSCENZA DELLA BIBBIA – 3 Agosto 2017

Alla radice della preghiera cristiana vi è la Parola di Dio contenuta nelle Scritture. Pertanto è essenziale trasmettere la conoscenza delle Scritture: infatti, “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo ” ( Gerolamo).

La Parola di Dio non solo parla a noi, ma di noi. Mentre la leggiamo essa ci legge; mentre la comprendiamo, comprendiamo noi stessi; mentre la interpretiamo, essa ci interpreta : “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12- 13 ). Porre la Scrittura al cuore della vita di preghiera aiuterà il passaggio da una

spiritualità spesso impastata di devozionalismi, al formarsi di un retto sensus fidei che sosterrà in modo robusto una fede matura.

La lectio divina è la forma tradizionale di approccio alla Scrittura che cerca di fare della lettura del testo biblico l’ingresso in una relazione con il Signore che parla attraverso la pagina biblica.

Aperta dalla preghiera con l’invocazione allo Spirito, la lettura del testo (lectio) si prolunga nell’approfondimento del senso teologico-spirituale dello stesso (meditatio) per giungere alla risposta orante alla Parola (oratio) e sfociare nella contemplazione (contemplatio). Con la lectio e la meditatio l’orante fa emergere il messaggio del testo, mentre con l’oratio e la contemplatio risponde alla Parola coinvolgendosi in prima persona e leggendo la propria vita personale ed ecclesiale alla luce della Parola di Dio.

La lectio divina è esperienza spirituale teologicamente solida e sicura, accessibile a tutti e quanto mai efficace nella maturazione della fede.

EDUCARE ALLA PREGHIERA – 2 agosto 2017

In vista dell’educazione alla preghiera occorrerà poi sviluppare degli elementi che stanno nello spazio di una formazione segnata dalla riflessività.

La riflessività indica che l’uomo è chiamato a pensare ciò che vive mentre lo vive, a leggere criticamente tutto ciò che fa sapendovi vedere e leggere se stesso, quasi sviluppando un terzo occhio capace di vedere se stesso, quasi guardando se stesso dall’esterno e così conoscersi e migliorarsi.

Questi elementi, questi specchi, ci invitano a lasciarci guidare dallo Spirito, ben sapendo che la preghiera cristiana avviene grazie allo Spirito Santo:

“Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili (Rm 8,26)

 

OGGI SI CELEBRA IL PERDONO DI ASSISI

LA VITA INTERIORE – 1 Agosto 2017

La preghiera attiva è uno spazio interiore affinché la persona possa compiere quel cammino di conoscenza di sé che sempre si accompagna al parallelo itinerario di conoscenza di Dio.

La vita interiore è un appello, una chiamata. La storia della fede e della salvezza inizia con quel cammino di Abramo che è sì di uscita da una terra ma è soprattutto cammino interiore. Le parole di Gen 12,1 lek lekà sono invito a uscire dalla terra, ma anche e soprattutto ad andare verso se stesso: “va ‘verso’ te stesso “, significa letteralmente l’espressione ebraica.

La preghiera ha bisogno di una vita interiore. Occorre pertanto favorire l’instaurarsi nella persona di una dialogicità interiore, della capacità di pensare e riflettere, di porsi domande. Se la preghiera è ‘giudicare e decidere con Dio’, essa chiede all’uomo di sviluppare i movimenti umanissimi di riflessione, di conoscenza di sé, di lucidità e vigilanza per giungere anche al discernimento di sé e della realtà.

Nessuna fretta di insegnare forme o metodi di preghiera: più urgente e importante è educare l’umanità della persona a conoscersi e pensarsi davanti a Dio. Del resto, questo è l’insegnamento che ci proviene dai Salmi: in essi, l’orante pensa la propria vita, in situazioni determinate, davanti a Dio, per arrivare a vivere in obbedienza alla volontà di Dio, per integrare nella fede anche esperienze dolorose.

In tempi segnati dal primato dell’esteriorità e dell’apparire, di esibizione della sfera interiore e di pornografia dell’anima, è importante accordare spazio e peso alla vita interiore, alle umanissime dimensioni che consentono alla preghiera di svilupparsi come manifestazione di una persona unita e integrata.

In questi tempi di individualismo esasperato, di narcisismo e di ricerche spirituali che nient’altro sono se non celebrazioni del sé, la preghiera cristiana chiama infine ad uscire da sé per vivere nella storia e nella compagnia degli uomini. Nessun ripiegamento intimistico, nessuna evasione dalle responsabilità storiche ed esistenziali: la preghiera non è nido, tana, rifugio, luogo di benessere personale. L’uomo che prega è anche l’uomo che sceglie e che paga in prima persona il prezzo delle sue scelte fatte in conformità alla parola di Dio ascoltata, meditata e divenuta luce per il suo cammino.

INIZIARE ALLA PREGHIERA OGGI – 31 Luglio 2017

Pregare non è uno spontaneo moto dell’animo ma è opera che chiede sforzo e costa fatica. “La preghiera non si riduce allo spontaneo manifestarsi di un impulso interiore: per pregare, bisogna volerlo. Non basta neppure sapere quel che le Scritture rivelano sulla preghiera: è necessario anche imparare a pregare” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2650). La preghiera cristiana è suscitata dallo Spirito Santo che abita in noi. Essa non coincide con una preghiera naturale o con un vago senso religioso. E’ risposta alla Parola che Dio ha rivolto per primo all’uomo, è risposta al Dio che gli ha parlato rivelandosi nelle Scritture, e dunque comporta un lavoro di apertura relazionale, di ascolto, di conoscenza con Dio. Senza questo lavoro, la preghiera resta esposta all’individualismo esasperato di oggi e rischia le derive del soggettivismo, dell’emozionale. Il pregare cristiano non è riducibile allo spontaneismo. E’ l’azione dello Spirito Santo in noi che ci fa pregare come pregava Gesù e ci rivela così il volto del Padre. Dice Giovanni: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). La preghiera cristiana inizia con l’ascolto, non è un monologo autocentrato, ma ricerca di una relazione e di un dialogo con Colui che ha parlato per primo. Significa entrare nella relazione di filialità con il Padre, come ci ha insegnato Gesù. E questo ci dice che un’adeguata educazione alla preghiera dovrà far spazio al silenzio. Il silenzio, che spesso è al cuore della ricerca spirituale di molte persone che si volgono ad esperienze religiose orientali o esoteriche, ha tutto il suo spazio nella preghiera cristiana. Esso non è ricerca di tranquillità psicologica ma esige un lavoro, una fatica per accogliere la Parola e fare spazio a Dio in noi. Solo grazie al silenzio il credente può essere educato a cercare e trovare il Signore non solo fuori di lui, ma in lui: “Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). L’ascolto della Parola ci porta a incontrare non solo Dio ma anche gli altri. L’obbiettivo dell’ascolto è comprendere l’altro, rompere con i pregiudizi, è purificazione delle idee che abbiamo sull’altro. E’ un’ascesi che chiede di sapersi decentrare dal proprio ego per non essere distratti e occupati dalle proprie sofferenze e dai propri pensieri e divenire così grembo accogliente per l’altro. L’ascolto poi, che è anche e sempre ascolto di sé, di ciò che l’altro suscita in noi, dei movimenti del nostro cuore e delle emozioni che ci abitano, richiede tempo. Occorre prendersi tempo per ascoltare. La fretta è nemica dell’ascolto.

LA MISSIONE DI CRISTO E’ LA MISERICORDIA DEL PADRE – 30 Luglio 2017

‘Mi manchi!’. E’ il ritornello drammatico dei rapporti umani. Quanto è presente questa espressione nella letteratura, nelle canzoni, nella vita. E’ la grande ferita dei cuori umani, perché creati per compiersi nella relazione, nell’amicizia.

Il Figlio di Dio si offre a noi come ‘pienezza’ di ciò che manca al nostro cuore chiedendoci di seguirLo nella missione che il Padre gli affida. Ma cosa vuole il Padre? Cosa rende possibile Dio mandando il Figlio nel mondo?

Cristo viene a dirci che noi manchiamo al Padre, che nel cuore di Dio c’è uno spazio di amore al quale manchiamo, che ci attende. E’ questa la Misericordia: manchiamo a Dio più di quanto ci manchi Lui. Solo facendo esperienza dell’abbraccio misericordioso di Dio nasce nel cuore dell’uomo la partecipazione alla missione di Cristo.

Che cultura nuova, che mondo nuovo, che soluzione diversa dei mille e tragici problemi del mondo d’oggi, si diffonderebbero se imparassimo dall’abbraccio di Dio ad andare verso tutti, e accogliere tutti, con la coscienza e quindi la testimonianza che ogni persona umana sta mancando al Padre, all’abbraccio e al bacio di un Dio che comunica se stesso come Amore, come Misericordia! Che rivoluzione in ogni lotta per la verità, la giustizia, la pace!

«Ma quando da morte passerò alla vita, sento già che dovrò darti ragione, Signore. E come un punto sarà nella memoria questo mare di giorni. Allora avrò capito come belli erano i salmi della sera; e quanta rugiada spargevi con delicate mani, la notte, nei prati, non visto. Mi ricorderò del lichene che un giorno avevi fatto nascere sul muro diroccato del Convento, e sarà come un albero immenso a coprire le macerie. Allora riudirò la dolcezza degli squilli mattutini per cui tanta malinconia sentii ad ogni incontro con la luce. Allora saprò la pazienza con cui m’attendevi; e quanto mi preparavi, con amore, alle nozze.. » (p. David Maria Turoldo).