LECTIO DIVINA – XXXIII T.O. / A – 19 Novembre 2017

 

Prv 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127 (128); 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

“Servo” e “padrone” sono termini che, per motivi storici e politici, oggi non piacciono. Nella Bibbia, al contrario, evocano un dinamismo ed una ricchezza di relazioni che dovremmo riscoprire per vivere meglio sia il rapporto con l’autorità sia il rapporto con Dio. Nella parabola cosiddetta dei “talenti” al centro è la relazione fra i servi e il kyrios, il “Signore” dei versetti 20, 22 e 24, con chiaro riferimento al Risorto: la dinamica di questo rapporto “verticale” può diventare terreno di confronto e di crescita anche “orizzontale” sia per chi esercita l’autorità, laica o ecclesiale, sia per chi vi è sottoposto.

 

Commento alle Letture

 

La donna forte dei Proverbi (31, 10), metafora di Israele, è laboriosa e piena di carità: il servizio che rende al marito e ai poveri ne fanno oggetto di riconoscenza e di lode dentro e fuori la famiglia. È tutt’altro che una schiava frustrata e sottomessa: al contrario, “ben superiore alle perle è il suo valore”, valore non dato dal fascino e dalla bellezza, doni positivi ma destinati a perire, ma dal rapporto di “timore” con il suo Dio.

 

Temere Dio significa attenderlo in ogni momento: se ogni momento è buono per il suo arrivo significa che è sempre vicino, che siamo sempre nell’orizzonte del Suo sguardo. Chi, come Adamo, si nasconde da Lui per paura, al Suo arrivo andrà in rovina, si ritroverà lontano, separato dal suo Creatore; i figli della luce, rammenta san Paolo ai Tessalonicesi, vigilano, invece, con fiducia.

 

Commento al Vangelo

 

Paura o timore, tenebre o luce, notte o giorno: possiamo lasciarci schiacciare dall’idea della grandezza di Dio, dalla Sua onnipotenza, e rimanere paralizzati, come il servo che riceve un talento e, anziché trafficarlo, lo sotterra in una buca; oppure possiamo, nella nostra piccolezza di servi, sentirci destinatari di enormi ricchezze che diventano fonte di gioia pur non essendo di nostra proprietà.

Il “talento”, nella Palestina di Gesù, era la paga di 6000 giornate lavorative: il servo che, nella parabola, ne riceve uno solo si ritrova comunque fra le mani una cifra enorme, simbolo della grandezza dei doni che Dio affida a ciascuno. Che siano pochi o tanti, sono sempre di grande valore. Trattenerli per sé, non trafficarli per evitare i rischi di un’impresa, quella della vita, che può comportare sacrifici, momenti di fallimento, delusioni e stanchezza, equivale a precludersi l’ingresso nella gioia del nostro padrone.

Chi teme Dio riconosce, come i primi due servi, che il padrone è generoso fino all’eccesso (affida ricchezze enormi ai servi, non ai figli o ai parenti), esigente nel pretendere che i suoi doni circolino per moltiplicarsi, così sicuro di avere ben riposto la sua fiducia da allontanarsi dalle sue terre e dalle sue ricchezze a tempo indeterminato. Chi teme Dio vive da uomo libero perché sa che la sua vita e le sue ricchezze appartengono ad un “padrone” che desidera che “prendiamo parte alla sua gioia” (vv. 21 e 23).

I talenti della parabola sono simbolo della carità divina: la spesa senza riserve della nostra vita per diffondere il bene fra gli uomini raddoppia l’amore di Dio per le sue creature, moltiplica qualcosa che ha già in sé un valore inestimabile. Chi partecipa a questo rischio raggiunge la pienezza di vita, lo shalom, una “pace” ben diversa dal sonno dell’immobilità, dell’accumulo di sicurezze personali illusoriamente intoccabili (1Ts 5, 3). Una “pace” erroneamente intesa ci pone automaticamente “fuori” (Mt 25, 30) dalla gioia del Signore, nel pianto senza speranza di chi, con le sue mani, si separa dalla fonte della vita.

 

Commento francescano

 

Giunto quasi al termine della sua vita terrena, San Francesco “si proponeva di evitare la compagnia degli uomini e rifugiarsi negli eremi più lontani, affinché (…) non ci fosse fra lui e Dio che il solo schermo della carne”. Nello stesso discorso esortava: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!” e, prosegue il narratore, “non lo sfiorava neppure il pensiero di aver conquistato il traguardo e, perseverando instancabile (…), sperava sempre di poter ricominciare daccapo. Voleva rimettersi al servizio dei lebbrosi ed essere vilipeso, come un tempo” (FF 500). L’affidamento totale della nostra vita, della nostra “carne” a Dio è una relazione d’amore forte, esclusiva e incontenibile: chi la vive non può non riversarla su chi da Dio è lontano, su chi vive nella tristezza della sua “lebbra”, del suo peccato.

 

Preghiera conclusiva

 

Signore, fonte di ogni bene, rendici trasparenti al tuo cospetto, disposti a collaborare alle tue imprese, a rischiare i doni e la vita che ci hai donato per moltiplicare fra gli uomini l’amore tuo infinito. La paura e le tenebre che spesso abitano in noi e fuori di noi non abbiano mai, in questa vita, il sopravvento sulla luce che si sprigiona dalla fede in te. Amen.

 

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